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Stili di Vita

A PRESCINDERE

VALERIO CRUGNOLA - 13/03/2020

incertezzaHo iniziato a scrivere questo articolo all’alba del 10 marzo. Inoltrerò ora, prima di cena. Verrà pubblicato la sera del 13. Come cambierei i toni e i giudizi di questo articolo tre giorni dopo? E quanto lo troverò invecchiato la sera del 20 quando finirà in archivio? Tutto va veloce, troppo veloce.

La prima novità della vicenda di questi mesi è che ci è sfuggita di mano la programmabilità del tempo e che il nostro stesso tempo interiore sia divenuto nebbioso e vago. Navighiamo a vista. Le percezioni, gli umori, i discorsi che facciamo, le informazioni che riceviamo e che smistiamo, le valutazioni che diamo, gli impegni che prendiamo, sono instabili e sfuggenti. I programmi vanno in fumo: i divisionisti a Novara; La Tour a Milano; la visita ad un caro amico a Venezia; gli incontri a Varese per ascoltare amici qualificati e raccogliere idee per il programma dell’amministrazione di centro-sinistra 2021-2026; abbonamenti a teatri e concerti slittati a data ignota. Avremo un secondo appello? E se sì, quando? Che l’umanità viva in un futuro aperto, è normale. Ma il tempo prossimo, che annotiamo sull’agenda elettronica, più che incerto è svanito, divorato da un rinvio indefinito.

A prescindere dal virus, la nostra è “l’età dell’incertezza”. Possiamo trasformare l’incertezza in insicurezza, l’insicurezza in paura, la paura in aggressività o in chiusura. Ma possiamo usarla come opportunità. Queste note mettono in luce i versanti più microscopici di questa chance.

Cambiano le forme della socialità. Dopo un quindicennio passato nello scafandro dell’estraneità e del divertimento coatto, qualcosa è mutato. Si ritessono le relazioni di prossimità. Ci informiamo sui vicini. Contattiamo più frequentemente gli amici. La frase che ho usato di più in questo mesi nei tanti messaggi scambiati su whatsapp è: “Abbi cura di te!”. La preoccupazione per gli altri non è meno forte della preoccupazione per noi stessi. La domanda “Come stai?”, un dire ordinario e rituale, ritrova pregnanza, si vena di premure e attenzioni. Cortesia, gentilezza e pacatezza dei toni – modi di essere fino a ieri in via di estinzione in un paese incafonito, incazzoso e imbarbarito – tornano in auge, come se questi buoni comportamenti compensassero la distanza di un metro che dobbiamo tenere dagli altri e simbolicamente colmarla.

Nelle prime settimane di diffusione del virus, chiunque era potenzialmente un nemico. I soliti idioti se la sono presa con gli untori cinesi. Altri, nonostante il loro ruolo, li hanno accusati di mangiare topi vivi crudi. Ora, sia pur lentamente, affiorano segnali di solidarietà. Penso ai volontari che aiutano gli anziani a rischio in determinate vie o quartieri. C’è più attenzione per malati cronici e anziani, i più esposti. La demagogia ha fatto un passo indietro. I cinesi non sono più gli untori. Nessuno se la prende con gli africani, gli zingari, gli arabi, gli ebrei. Il razzismo non è scomparso: è sospeso, messo tra parentesi. Ma questo temporaneo accantonamento aiuta molti a disintossicarsi, a smetterla di dilettarsi con il politicamente bovino (che è malattia ben più grave del politicamente scorretto), o di osannare le sceneggiate degli agitprop, giovinastri cicciottelli e già bolsi. Registro un piccolo miracolo: un paese di anarchismo illegalitario, incline alla frode e al menefreghismo, rispetta con meno fatica le regole, almeno nella maggioranza della popolazione.

Qualche politico si è esibito con la mascherina. Dei cinesi magnatopi si è detto. Un ignoto gentleman educato a Oxford, arrabbiato con i francesi, ha chiamato Notre-Dame una pizza bruciacchiata (trascuro gli imbecilli che ancora vantano la superiorità italiana perché i cugini non userebbero i bidet). Ma nell’insieme la destra estrema ha ridotto il ricorso all’arma del populismo. Non c’è una vera solidarietà nazionale, ma l’opposizione e la coalizione di governo agiscono come se ci fosse una tregua. Mesi fa era la guerra. Le istituzioni collaborano quanto basta. La continua evoluzione delle cose determina errori, ma è sleale pretendere l’infallibilità nell’incertezza. Le correzioni di rotta sono state quasi sempre all’altezza. Solo l’autocertificazione è una colossale sciocchezza. Il sistema sanitario al momento tiene. Anche i gangli dello stato che passano per i prefetti funzionano.

Si apprende per prove ed errori. Abbiamo un’ottima protezione civile. Abbiamo buoni presidi sanitari. Ma questa emergenza è nuova, e nessuno – non l’Italia soltanto – è stata colta in contropiede. Ci attendono tremendi disastri ambientali: siccome non facciamo nulla per prevenirli, e anzi gli imbecilli dileggiano l’ottima Greta, di nuovo sbaglieremo e poi, forse, potremo correggere il tiro. Se facessimo tesoro di questo passaggio dall’inesperienza all’esperienza, potremo difenderci meglio.

L’apporto del sapere scientifico, fino a ieri sostituito da no-vax, casalinghe di Voghera e parlamentari che compilavano carte verdi a Soresina, viene ascoltato e preso sul serio. I social sono sempre una latrina infestata dai vermi, ma il loro impatto patogeno è più debole. Le difficoltà sembrano levare la terra sotto i piedi al populismo dilagante solo pochi mesi fa. Si riaccendono, se non i lumi, almeno barlumi di razionalità, persino quando il panico spinge ad assaltare supermercati in luogo dei forni.

L’epidemia ha accelerato l’evoluzione tecnologica. Le lezioni online, il telelavoro, i servizi in rete, le app che sviluppano connessioni hanno ricevuto un impulso notevole. Non torneremo indietro. Queste relazioni non sostituiscono i rapporti diretti faccia a faccia, ma suppliscono, facilitano, personalizzano di più, prefigurano un uso meno dissipativo, meno compulsivo e meno rimbambito del web.

Molti hanno riscoperto la vita familiare, la conversazione, le relazioni amicali, la lettura, l’ascolto, il piacere di un riposo operoso in una casa accogliente, la cura di sé. Tra i giovani la gradazione alcoolica e il piacere del vandalismo nel weekend sono in calo. La percezione eccitante ma deleteria di essere una folla e la logica del branco sembrano fare spazio a comportamenti motivati dall’affinità e da legami meno effimeri.

Le minacce di una crisi economica devastante, in un paese già indebitato e in recessione, non vanno sottovalutate. Incitarci l’un l’altro a farcela con iniezioni di volontarismo non serve. Serve invece prepararci a tempi difficili, a nuovi sacrifici, a lavorare duro, ciascuno per la sua parte. Dobbiamo vivere più sobriamente, consumare meno e meglio, gestire diversamente il tempo, orientare lo sviluppo verso i beni essenziali: l’ambiente, la sanità globale, l’equità, i diritti del lavoro, la sicurezza dei nostri consumi alimentari, nell’accesso all’acqua e all’aria, l’espansione dei mezzi di trasporto pubblico, il welfare per tutti, l’efficienza degli apparati burocratici e la lotta spietata ai parassitismi, agli sprechi e all’improduttività. Si apre una stagione riformista forte e non verbalistica.

Mi sembra di percepire un sentimento condiviso di riscossa e di rinascita: un sentimento costruttivo, non patriottico, non nazionalista, non sovranista, non demagogico. Dobbiamo incoraggiare e apprezzare la pacatezza, l’agire costruttivo e alieno da esibizionismi. Maggioranze e oppositori devono ritrovare uno stile condiviso. Sarà dura, ma la pacatezza potrebbe prevalere. Il buon governo pacato, come quello che amministra Varese, ha qualche esemplarità (e, tra parentesi non “siamo” condannati a perdere; l’estremismo, all’opposto, ha pagato, e magari può reclutare qualche avventuriero, ma potrebbe rivelarsi un boomerang).

L’occasione di correggere errori ripetuti e comportamenti negativi ha ripercussioni politiche. Dobbiamo pretendere il ritorno a un sistema sanitario nazionale e combattere la brutale privatizzazione in atto. Il liberismo illiberale e iniquitario è un “Dio che è fallito”: un modello economico devastante, insostenibile, pernicioso. Prima abbandoniamo questa triviale mitologia che giova solo a esigue minoranze di straricchi, e meglio staremo. Potremmo riprenderci un po’ di futuro. L’Europa ha brillato per la sua debolezza, ma resta il solo nostro scudo. L’Europa è in grado, ad esempio, di pretendere dai paesi emergenti standard sanitari più alti, tutele ambientali più rigorose e severe, regole e salari adeguati a tutela del lavoro, pena l’isolamento produttivo e commerciale di chi vuole andare per conto suo. Unita, l’Europa è più forte del gas di Putin, del dumping cinese e della spregiudicatezza di Trump. Ma l’europeismo deve smetterla di ridursi a un mantra stucchevole e vuoto. Di nuovo, tocca a noi prendere l’iniziativa.

Il coronavirus ha infine messo a nudo l’impossibilità di usare le frontiere come barriera. Chi invoca muri non scongiura nessun pericolo e spaccia fumo. La protezione viene anzitutto da noi stessi, dal rispetto delle regole che ci diamo, dalla cooperazione reciproca nel microcosmo quotidiano come nel macrocosmo globalizzato. Nelle situazioni di pericolo gli uomini a volte reagiscono in modo animalesco, in altre hanno intuizioni felici e creative. Sta a noi trovare la strada senza “imbestiarci”, come avrebbe scritto Giordano Bruno. La paura di questi mesi può essere costruttiva e catartica. Ma può anche generare reazioni devastanti: più diffidenza, più odio, più violenza agita, più caccia alle streghe, più ossessioni securitarie infondate. Anche i nemici maggiori della democrazia liberale – i populismi, il qualunquismo, l’irrazionalismo antiscientifico, il localismo, l’autoritarismo elettivo – possono svaporare o riemergere e dilagare. Le lezioni si dimenticano facilmente. È successo. Vedremo.

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