Come l’olandesina dei Caroselli di detersivi, anche Angelo calzava zoccoli di legno. Ma a differenza di quelli della fatina nordica, gli zoccoli di Giò erano espressione del suo carattere: burbero e cocciuto: tagliato con l’accetta.
Zoccoli con cui percorrere il perimetro Casbeno, Campo dei fiori, Giubiano, San Vittore, Lago e poco più. Una volta che gli avevo regalato un libro sulla sua città si era quasi messo a piangere.
Curiosa la vita dei varesini osservata da 600 chilometri di distanza. Gente di poche parole, legata a filo doppio alla propria terra, alla famiglia, al dialetto, all’apparenza infastidita dall’idea di superare la barriera di Gallarate ma che poi invece ritrovi in Uganda o Sud Sudan a costruire chiese o ospedali.
Angelo Galante, Giò per gli amici, se ne è andato pochi giorni fa in una tiepida domenica di febbraio. “Dalle finestre dell’Ospedale -raccontava nelle ultime telefonate- riesco a vedere il Monte Rosa…”.
Grazie agli Alpini aveva imparato ad arrampicare bene anche in alta montagna. Era orgoglioso di aver portato la nappina verde su molte cime delle Dolomiti. Ma uno dei suoi vanti è stato anche quello di scendere in corda doppia dal campanile del Bernascone.
Geometra, gli veniva riconosciuta ovunque autorevolezza e competenza. Alcuni temevano la sua conoscenza professionale, la precisione nel dettaglio ed il rigore della forma. Per altri, proprio per questi motivi, è stato invece maestro.
Conoscitore seriale di tutte le genealogie varesine, delle trattorie della Val Ganna, di ogni rudere che potesse ricondurre ad una identità bosina, era però capace di raggiungere Parigi con ogni mezzo per conquistare il cuore di quella che poi sarebbe diventata sua moglie, Maria appassionata e devota.
La missione poco dopo le nozze in Uganda e poi quella in Sud Sudan. Ai suoi collaboratori africani portava toscanelli italiani. Li distribuiva solo a fine lavoro, quando ormai il muro di cinta dell’ospedale aveva sfinito tutti, lui compreso. Allora si sedeva sulle impalcature, come in quella celebre foto degli operai sul grattacielo di New York del ’32, ad ammirare insieme il risultato della fatica quotidiana.
Le canzoni di Davide Van De Sfroos, i gialli di Marco Marcuzzi. Ma anche, nell’anno e mezzo di agonia, la decisione di leggere l’intera Bibbia e le poesie di Giacomo Leopardi. Il tutto in un frammento, verrebbe da dire scomodando Von Balthasar. È ancora da scrivere la storia dei tanti varesini capaci di comprendere tutto il mondo a partire dal terrazzo di casa propria. Proprio come in quel pensiero di Sinjavskij: “Il suo orizzonte a noi parve ristretto ma in verità come era grande quella serrata compagine concentrata in un solo villaggio”.
Gigante buono, deve tanto della sua vita all’incontro con un altrettanto burbero lombardo però valtellinese, don Fabio Baroncini. Da quella scintilla degli anni sessanta nacque una amicizia che lo ha accompagnato per strade a lui impensate: da Rimini a Kampala, da Assago a Trivulzio, da Campitello a Giuba. Quanto ha condiviso e sperimentato, in qualunque campo e direzione,lo ha testimoniato a suo modo a chiunque incontrava. Fosse anche nella forma di una scala in cemento armato. Amore a una perfezione intravista in una compagnia cristiana, ora pienamente vissuta.
Al funerale c’erano persone venute da ogni dove. Centinaia tanto da stupirne lo stesso parroco. Erano lì tutti per rendere omaggio ad uno che la amava la sua città e perciò il mondo: Varese, distratta madre dei tanti figli tuoi.
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