Sono infinite le letture della vicenda del coronavirus, sia sul fronte della comprensione degli eventuali errori commessi sia su quello degli interventi a caso deflagrato (ormai con dimensione planetaria). Resto comunque all’interno della nostra Italia, con particolare riferimento alla ancora più nostra Lombardia. Riconosco che è sempre facile giudicare a posteriori e che non è agevole la posizione di chi deve assumere dei provvedimenti con urgenza e decisione. Ma mi schiero anche dalla parte di chi ritiene che ci siano stati sbagli nella strategia contro il virus. Il primo? Di miopia operativa. Oggi la vera emergenza è il rischio-collasso del sistema sanitario, con la saturazione dei posti letto per gli ammalati, soprattutto quelli che necessitano di andare in terapia intensiva. Domanda: nessuno ha pensato – trattasi non di preveggenza, ma di senso della programmazione – all’espansione del contagio su larga scala, con l’opportunità di attrezzare strutture prima che i buoi scappassero dalla stalla? Noi non siamo in grado, come i cinesi, di costruire un ospedale in 72 ore… Il secondo errore è di comunicazione. Siamo passati da zero casi a “tutti malati” nel volgere di un giorno: a meno che non ci sia stato nascosto qualcosa prima, chi ha assunto certe decisioni l’ha fatto chiaramente con un senso di panico che è stato trasmesso innanzitutto alla popolazione (di qui gli assalti assurdi ai supermercati) e poi al mondo, che non ha esitato a battezzarci come gli untori del pianeta.
Ho viaggiato parecchio e fortunatamente viaggio ancora: vi assicuro che l’immagine di noi italiani nelle emergenze è quella di essere un po’ cialtroni (spesso un po’ tanto…). Stavolta abbiamo tentato di ribaltare l’assunto, ma ci siamo tirati la zappa sui piedi con uno zelo probabilmente eccessivo. Ci siamo fatti consegnare il cerino in mano, mentre altri – penso a francesi e tedeschi – sono stati più furbi e accorti nel non dare clamore ai loro casi, che, come si è ben visto, c’erano eccome. Nello zelo di cui sopra includo anche la scelta del blocco totale, che reputo esagerato, ridicolo in tante manifestazioni (la storia del caffè che può essere consumato da seduti e non al banco me la devono spiegare…) e soprattutto incoerente perché ci sono profonde smagliature.
Faccio un esempio vissuto in prima persona domenica 1 marzo. Sono tornato da La Thuile, dopo l’annullamento della combinata di sci, e mi sono fermato agli outlet di Vicolungo (in realtà era la moglie che desiderava fare una sosta lì…). C’era l’universo in trasferta e aggiungo un “per fortuna” – vuol dire che la voglia di socializzare è ancora alta nonostante fobie e cavolate varie -; c’erano a occhio parecchi lombardi e probabilmente c’era pure il coronavirus. Mi domando se abbia senso fermare cinema, teatri, palestre, piscine, eventi sportivi se poi ci sono eccezioni così lampanti circa gli assembramenti del popolo. Ed è una balla cinese, tanto per restare in tema, pensare che in un outlet si sta molto all’aperto. Vero, ma si sta pure moltissimo al chiuso, tra l’altro in locali caldissimi e pestiferi già di loro.
Insomma, comincio a pensare che fanno bene gli olandesi: del coronavirus non ce ne frega nulla, non daremo mai notizie e numeri. Chi vive, vive; chi muore, muore. Del resto, tutto è partito da una Nazione da 1 miliardo e 300 milioni di umani, molti dei quali si muovono ormai ovunque: lo scorso settembre, visitando la Namibia, ho scoperto che i cinesi sono giunti pure da quelle parti e che si stanno incrociando con le varie etnie locali. Non per fare il disfattista, ma temo allora che il contenimento sia semplicemente impossibile. Il pericolo, semmai, è un altro: che qualcuno si faccia venire insane idee seminando ceppi ben più letali del coronavirus. Forse il mondo deve cominciare a immaginare che questa sarà la vera guerra globale da combattere. E magari, possibilmente, da prevenire.
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