Wilhelm de Kostrowitzky fu decisamente sfortunato. Stava leggendo la sua copia del «Mercure de France», quando fu colpito alla testa. Era il 17 marzo 1916. Il sottotenente de Kostrowitzky si trovava nella regione dell’Aisne, tra Parigi ed il Belgio. Era partito per il fronte la primavera dell’anno precedente. Fino a quel momento, aveva trovato la guerra un’esperienza fantastica e meravigliosa. Ma la sua guerra dovette interrompersi nel momento in cui una scheggia di obice gli trapassò l’elmetto, ferendolo alla tempia destra. Trasferito subito nella capitale francese, fu sottoposto alla trapanazione del cranio. Da pochi giorni, il 9 marzo, aveva ottenuto per decreto la nazionalità francese (era nato a Roma nel 1880).
Wilhelm de Kostrowitzky superò anche il delicato e doloroso intervento chirurgico. Sopravvisse alla guerra e sopravvisse alla trapanazione della testa. Poteva ora godersi la convalescenza da cittadino francese in quella Parigi, che lo aveva visto protagonista della scena culturale. Tuttavia, la cattiva sorte ancora incombeva su di lui…
Wilhelm Albert Wodzimierz Apolinary de Kostrowizki, meglio conosciuto con il nome di Guillaume Apollinaire, il 9 novembre del 1918, mentre in Germania veniva proclamata la Repubblica, morì di influenza. Aveva contratto l’H1N1. Il suo funerale si svolse il 12 novembre nell’indifferenza generale: tutta la Francia stava infatti festeggiando l’esito vittorioso della guerra.
Il virus H1N1 si chiama così da non molto tempo. È stato isolato nel 1997. Quando iniziò a mietere vittime in Europa e nel mondo, fu subito etichettato come «influenza spagnola». In realtà, oggi sappiamo che furono i soldati americani a portarlo in Europa (pare che i primi casi di questa influenza siano stati rilevati in un centro di addestramento militare del Kansas nel marzo del 1918). Fu chiamato «influenza spagnola» e poi, più sinteticamente, «Spagnola», perché i giornali della neutrale Spagna, non sottoposti alla censura di guerra, ne iniziarono a dare notizia, inducendo l’opinione pubblica europea a credere che la nuova epidemia partisse dalla penisola iberica.
«Sotto il nome di malattia spagnuola si designa una malattia epidemica, che è comparsa cinque o sei mesi or sono nell’Europa meridionale ed ha assunto più tardi una diffusione enorme anche nell’Europa centrale. Alcuni paesi ne sono stati maggiormente infestati, fra i quali la Spagna (donde la sua denominazione): e non ne venne risparmiata l’Italia, in alcune regioni della quale la sua frequenza ha assunto delle proporzioni impressionanti (ad esempio nel Piemonte lo scorso maggio): anche oggidì dei nuovi casi ne vengono segnalati ininterrottamente nell’intiera penisola».
Così il «Corriere della Sera» presentò la nuova malattia ai suoi lettori il 17 settembre 1918. Ma con il diffondersi dell’epidemia, si diffuse rapidamente anche il panico. Il medico-capo della capitale lombarda, intervistato due giorni dopo dal quotidiano milanese, affermò che si trattava di una normale influenza. Certo, più grave per le sue complicazioni, ma pur sempre un’influenza. Come quella che si era diffusa tra il 1889 ed il 1890 (la cosiddetta «influenza russa» o «asiatica»). Per limitarne i danni, sarebbe stato sufficiente isolare gli ammalati «evitando gli affollamenti», curare l’igiene personale e la pulizia degli ambienti, evitare viaggi o spostamenti. «Una norma importantissima – continuava il medico-capo – è quella di lavarsi sempre accuratamente le mani». Più o meno dello stesso tenore furono poi le misure indicate dal Governo nazionale il 27 settembre per contrastare il diffondersi di quella che, a tutti gli effetti, era ritenuta una forma influenzale. A chi necessariamente entrava in contatto con gli ammalati, si raccomandò l’uso di una «maschera di garza».
Il diffondersi del contagio spinse gli organi di governo locale a passare dalla prescrizione di semplici raccomandazioni all’adozione di misure restrittive. A Milano, il 1° ottobre fu annunciata la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado; il giorno successivo fu deliberata dalla Prefettura la chiusura delle sale cinematografiche; il 15 ottobre furono vietati i cortei funebri. L’adozione di simili provvedimenti alimentò la paura popolare. La paura suscitò comportamenti, che rischiavano di intralciare il lavoro dei medici, come denunciò il «Corriere della Sera» il 16 ottobre:
«La cittadinanza […], in preda ad uno stato di nervosità comprensibile, moltiplica in molti casi le difficoltà, concorrendo così ad aggravare la condizione di cui soffre. Il timore che ha invaso molti spinge a chiamare il medico per ogni piccola indisposizione; la paura di restare senza assistenza o che questa giunga troppo tardi, fa sì che altri, in caso di bisogno, chiamino tre o quattro medici contemporaneamente, aumentando così le chiamate ed il lavoro dei sanitari.»
Nelle settimane successive, si alternarono sui giornali notizie contrastanti: la malattia restava un’influenza «non grave», ma il numero dei contagiati e dei morti cresceva costantemente. Poiché, dai ripetuti inviti delle autorità, si radicò la convinzione che l’unica barriera alla diffusione del contagio fosse il ricorso a disinfettanti, i disinfettanti iniziarono a scarseggiare ed il loro prezzo a crescere: «Il Municipio ha pubblicato norme igieniche per l’influenza. Tutte belle cose. Disinfettare a destra, disinfettare a sinistra, disinfettare in su e in giù, ma dove si prendono i disinfettanti? Non se ne trovano, e quei pochissimi che si possono avere bisogna pagarli prezzi sbalorditivi.»
Questa la denuncia pubblicata dal quotidiano di via Solferino il 19 ottobre.
Verso la fine del mese, il ministro dell’Interno, Vittorio Emanuele Orlando, diramò una circolare indirizzata tutti i Prefetti del Regno, in cui si invitava a mettere in guardia la popolazione dalle «voci arbitrarie, assurde, frutto di incompetenza e di fantastica sovreccitazione». E poiché la malattia colpiva prevalentemente giovani compresi tra i 18 e i 40 anni e i focolai sembrarono essersi sviluppati soprattutto in contesti militari, quando ancora la guerra non era terminata, non mancò chi sostenne che forse quella strana influenza fosse stata creata in qualche segreto laboratorio ed utilizzata come arma.
La «Spagnola» si diffuse dappertutto. Non c’è angolo del nostro pianeta che non abbia dovuto fare i conti con quella forma influenzale. Non si conosce il numero esatto delle vittime: la cifra oscilla tra i cinquanta e i cento milioni di morti in tutto il mondo e tra i quasi 400mila e i quasi 700mila nella sola Italia. Nel nostro Paese si ritiene che il 12% circa della popolazione sia stato contagiato: cioè 4 milioni e mezzo di persone.
Dopo essersi manifestata in tutta la sua aggressività nell’inverno tra il 1918 ed il 1920, l’epidemia sembrò placarsi, sino a scomparire.
A distanza di un secolo, ci ritroviamo ad affrontare una nuova, strana epidemia influenzale. E le forme, le raccomandazioni, le misure adottate, le paure e le leggende popolari che intorno ad essa si moltiplicano, sembrano riproporre un contesto molto simile a quello con cui dovettero fare i conti i nostri nonni o i nostri bisnonni. Certo, cento anni fa il mondo non aveva, non poteva avere le conoscenze scientifiche di cui noi oggi disponiamo. Né forse poteva fronteggiare l’emergenza sanitaria con la solida razionalità che ci contraddistingue. Nessuno all’epoca immaginava, come noi tutti invece oggi sappiamo, che è molto probabile che questa nuova epidemia sia stata provocata da abituali consumatori di topi vivi.
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