Per importanza, mole di documentazione nel mappare una terra sconosciuta e chiarezza di sintesi, il Capitalismo della Sorveglianza di Shoshana Zuboff sta al pari con Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty. La parola “capitalismo” farà inorridire o gongolare qualche sprovveduto che vive nel trapassato remoto. L’autrice non è una trinariciuta. Il capitalismo realmente esistente merita un’analisi scientifica severa. Non vi sono intenti bellicosi di origine ideologica nell’impiego del termine. Si tratta di nominare un dato di fatto.
Agli inizi della digitalizzazione ci si chiese se avremmo lavorato per le macchine intelligenti o se le avremmo impiegate come esseri intelligenti. Venti anni fa la seconda ipotesi prometteva un mondo digitale luminoso. Oggi il futuro appare oscuro. Di più: assistiamo a una sorta di esproprio miliardario del diritto di ognuno ad immaginare, decidere, promettersi e costruirsi un avvenire”. I benefit gratuiti e convenienti elargiti dall’interconnessione globale hanno fatto sì che nessuno sia del tutto sconnesso e che nulla della sua esistenza sfugga. Il bisogno di una vita più agile, assolto e stimolato da congegni tascabili che consentono di uscire di casa senza l’ingombro di telefoni, agende, archivi, dizionari, enciclopedie, libri, giornali, carte geografiche, macchine fotografiche, registratori, cineprese, macchine per scrivere, calcolatrici, computer, tastiere e quant’altro, confligge con il dovere civile di contrastare l’invadenza dei sorveglianti. Siamo assuefatti a venire tracciati, analizzati, sfruttati e modificati. Abbiamo riconosciuto tardi i pericoli e i nostri sistemi immunitari non sono pronti. Siamo a un punto di non ritorno. Abbiamo ridotto il mondo a una protesi della mano. I più fanno spallucce, dicono di non aver nulla da nascondere o si riparano nel triviale elogio del progresso, come se l’alternativa fosse l’età della pietra. Quasi nessuno coopera con gli altri per respingere “il drastico do ut des” del capitalismo della sorveglianza. Chi resiste da solo è costretto a un nuovo tipo di eremitaggio. L’agire condiviso proprio della democrazia sembra essersi liquefatto. Nessuno ha mani sufficienti per tappare le falle.
Zuboff esplora “le condizioni sociali che hanno fatto entrare il digitale nelle nostre vite quotidiane” e descrive “la collisione tra i processi secolari di individualizzazione che hanno dato forma alla nostra esperienza di individui autodeterminati e l’impervio habitat sociale prodotto da decenni di regime economico neoliberale che schiaccia quotidianamente la nostra autostima e il nostro bisogno di autodeterminarci”. Per inciso: la perdita di autostima è il presupposto del processo. Chi cede i propri dati mostra di ritenersi banale, privo di valore. Paradossalmente, anzi, tanto più disponiamo di un ego massiccio e quanto più ci banalizziamo.
L’autrice ricostruisce il cammino dalle connessioni a circuito chiuso in gruppi di “case consapevoli”, dove l’accento era posto sulla sovranità e l’inviolabilità delle persone coinvolte, al trionfo di Google dopo il suo mutamento da motore di ricerca a capofila globale del capitalismo della sorveglianza. Come nei primi sistemi a circuito chiuso, anche Nest, una comoda app di Google, controlla il termostato. Ma anziché restare nel circuito, i dati rastrellati da Google sono al tempo stesso materie prime, merci e strumenti di potere in mano a un aggressivo mercato dei comportamenti futuri, che gestisce unilateralmente le esperienze delle persone e le relative conoscenze che ne ricava allo scopo di tradurle in informazioni predittive.
Il capitalismo della sorveglianza “non è una tecnologia ma una logica in azione”, che ottiene i dati più predittivi grazie non alla concessione dagli utenti, ma interagendo con loro con “consigli” che li inducano ad assumere i comportamenti che massimizzano i profitti. I protocolli automatizzati “non solo conoscono i nostri comportamenti, ma li formano”: “sono progettati per rendere le nostre esperienze vitali “un mezzo di produzione subordinato a mezzi di modifica del comportamento sempre nuovi e più complessi”.
L’assoluta asimmetria non ha precedenti nella storia umana. Non ci dato conoscere i comportamenti delle imprese del capitalismo della sorveglianza né interagire con loro. Il capitalismo descritto da Schumpeter come ricerca e ottimizzazione continua di un equilibrio tra domanda e offerta, tra capitale e lavoro, tra imprese e regole mediante un flusso reciproco ininterrotto di informazioni in un habitat liberaldemocratico, è ormai un relitto del passato. Siamo anche lontani dalla critica del giovane Marx. L’ostacolo sociale primario alla libertà non è la divisione del lavoro, ma la privatizzazione della divisione dell’apprendimento; e il profitto di queste imprese nasce dall’espropriazione del futuro, non più del presente, che resta appannaggio del capitalismo classico. Il mercato è passato dal rischio d’impresa all’abolizione dell’incertezza.
Google ha avuto un ruolo pionieristico, teorico e pratico, per gli investimenti in ricerca e sviluppo, sperimentazione e implementazione. Ben presto si sono accodati Facebook, Microsoft e, recentemente, Amazon. Nella loro esplorare le potenzialità della rete, questi colossi non hanno trovato ostacoli nelle leggi degli stati (specie dopo l’11 Settembre), né resistenze da parte degli utenti. L’espansione della raccolta e vendita di dati non ha più limiti: i dati raccolti da un cardiofrequenzimetro usato per correre nel parco possono interessare una società assicurativa; l’assicurazione a sua volta può interessare qualcun altro; e così all’infinito. Questi mutamenti repentini e imprevisti, oscurati dall’utopismo sollevato dal web, hanno colto impreparati sia gli utenti che gli enti pubblici chiamati a disciplinare i processi. La dominante religione liberista ha aggravato l’impreparazione generale.
Google e, a sua ruota, gli altri imprenditori della sorveglianza hanno mostrato “un disprezzo per i limiti del privato e per l’integrità morale degli individui” e hanno usurpato “il diritto di decidere individualmente a favore di una sorveglianza unilaterale e dello sfruttamento autodeterminato dell’esperienza altrui con fini di lucro. Queste pretese tanto rapaci sono state sostenute dall’assenza di leggi in grado di fermarle, dalla comunione di interessi tra i primi capitalisti della sorveglianza e le agenzie di servizi segreti, e dalla tenacia con la quale le corporation hanno subito difeso i territori conquistati”.
Tutti sperimentiamo l’impossibilità – in sé tirannica se non anzi totalitaria – di scegliere. Se voglio utilizzare il web, devo arrendermi a certe condizioni. Il clero (sic) ci dice senza pudore che siamo sorvegliati per ottimizzare le nostre ricerche. Se decidiamo di opporci, l’aggeggio che domina la nostra vita non svolge le sue funzioni. È evidente la prefigurazione di una società della sottomissione. Non posso eludere le procedure se non rinunciando tout court alla comunicazione. Ma le procedure non sono normative tecniche. Sono procedure politiche che incanalano, e tendenzialmente distruggono, le nostre possibilità di scelta. Non la scelta se votare Sanders o Trump, ma di come vivere, come comportarci, come scegliere. Il ventaglio delle nostre libertà si riduce a poter decidere se camminare sul lato destro o sinistro di un vicolo strettissimo. La giustificazione di questo business è la personalizzazione: in verità, la riduzione del soggetto a un target è il massimo possibile della spersonalizzazione e dell’alienazione di sé. Il dramma è che non emergono al momento forme possibili di resistenza umana. Né forme di concorrenza: se voglio “navigare” devo sottomettermi a Google. Se voglio scambiare messaggi, devo sottomettermi a Whatsapp, che è una costola di Facebook. L’alternativa è Messenger: stesso padrone, stesso asservimento.
La domanda che chiude la prima parte del volume è inquietante. “Se il capitalismo industriale ha distrutto l’ambiente in modo tanto pericoloso, che danni può fare il capitalismo della sorveglianza alla natura umana?”
Il libro trova un complemento nel recente volume di Nadia Urbinati, Io, il Popolo, di cui avremo modo di parlare.
Zuboff nomina questo potere di strumentalizzazione “Il Grande Altro”.
Per evitare i danni enormi alla libertà e alla democrazia arrecati dai capitalisti della sorveglianza dobbiamo rinunciare ai piccoli vantaggi di cui non possiamo più fare a meno o possiamo affrontare? Intanto stabiliamo un punto a nostro vantaggio: non esiste un’inevitabilità tecnologica.
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