Con un intervento dal titolo Sulla questione dell’impegno dei cattolici in politica, pubblicato sul sito web dell’Associazione, Stefano Zamagni procede nel lavoro di affinamento della proposta di Politica Insieme. Una proposta cui avevo accennato nel mio recente Politica_Insieme. L’urgenza di una nuova presenza politica dei cristiani, e il caso complicato di Comunione e Liberazione dicendomi dispiaciuto che a obiettivi su cui concordavo largamente facesse riscontro una scelta di campo esclusivamente di centrosinistra. Una scelta che quindi esclude quell’ampia fetta di elettorato cattolico che vota per la Lega o per altri partiti di centrodestra.
Stefano mi ha detto che non è così; e in effetti tale preclusione non viene affermata in modo esplicito né nel Manifesto di Politica Insieme né nel suo intervento del 29 gennaio. Tuttavia da vari passaggi dell’intervento tale preclusione risulta inevitabile. Il «populismo» vi viene indicato come “avversario primo del popolarismo”, e si aggiunge che Politica Insieme “ mai può accettare le ragioni del populismo; è invece a favore del popolarismo nel senso di Sturzo e di J. Maritain”.
Nel gergo politico corrente in Italia tuttavia la parola “populismo” non è più un termine generico bensì una definizione a priori denigratoria della proposta politica della Lega. Credo si possa quindi concludere che non c’è spazio in Politica Insieme per chi non chiude alla Lega (i cui elettori, dicevamo, sono cattolici in misura assai consistente) o comunque si colloca nell’area di cui la Lega è oggi la forza principale e trainante.
L’Associazione ha annunciato che entro la fine di giugno elaborerà il suo programma politico, frutto dell’opera di dodici diversi gruppi di lavoro. Avrà quindi luogo un’assemblea a Roma ove “si deciderà democraticamente se dare vita o meno ad un partito autonomo, non confessionale, aperto a credenti e non credenti, l’adesione al quale avviene non per via di fede, ma di condivisione di un progetto di trasformazione della nostra società politica”. Senza pretendere di anticiparli attendiamo dunque di sapere quali saranno gli esiti di questa interessante fase costituente.
Quale altro possibile itinerario
Avviandosi alla conclusione del suo intervento Zamagni afferma il rifiuto dalla cosiddetta «negative politics», ossia “di quella prassi politica, oggi di gran moda, che cerca di ottenere il consenso dell’elettore demonizzando o denigrando le proposte degli avversari”. Nel medesimo spirito indico qui un altro possibile itinerario che inizia a monte di quello di Politica Insieme e giunge infine a un traguardo che mi sembra più ampio. Un itinerario — per il resto non privo di punti di contatto con quello di Politica Insieme — tipicamente caratterizzato da due elementi: i positivi limiti dell’unità politica necessaria e le buone ragioni di una presenza pubblica cristiana non più essenzialmente difensiva.
“Quello che mi preme sottolineare è che il cuore della questione non riguarda le formule organizzative. Il vero problema è come portare in politica, in modo autentico, la cultura del bene comune. Non basta fare proclami. La proclamazione di un valore non ci mette con la coscienza a posto. Bisogna promuovere processi concreti nella realtà. Non è auspicabile che, nonostante le diverse sensibilità, i cattolici si dividano in «cattolici della morale» e in «cattolici del sociale». Né si può prendersi cura dei migranti e dei poveri per poi dimenticarsi del valore della vita; oppure, al contrario, farsi paladini della cultura della vita e dimenticarsi dei migranti e dei poveri (…)”: questo richiamo del presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, che risale al settembre 2017, mi sembra quanto mai attuale.
In tale prospettiva, nell’ambito dell’auspicato cammino di rinascita della presenza pubblica dei cristiani nel nostro Paese, a mio avviso occorre prendere prima di tutto le mosse dall’elaborazione di una «piattaforma» condivisa e costantemente aggiornata, attinta alla dottrina sociale della Chiesa nonché al grande patrimonio di esperienze e di pensiero di cui essa si nutre. Una «piattaforma» da elaborare e da sviluppare regolarmente in un momento di pubblica assemblea. In un congresso ad hoc, che beninteso non abbia affatto quale conclusione necessaria la scelta privilegiata per un certo partito, il sostegno privilegiato a un certo governo, la collocazione privilegiata in questa o quella area politica; che non abbia insomma la pretesa di stabilire quale giudizio storico e quale progetto politico siano certamente… più cristiani degli altri. Se poi da tale confronto deriveranno delle convergenze tanto meglio, ma non è questo l’obiettivo. Il motivo dell’incontro è l’aggiornamento della piattaforma e l’ascolto reciproco, alla luce della «piattaforma» condivisa, delle ragioni delle rispettive diverse scelte politiche. Altrimenti tutto si politicizza nel senso peggiore della parola e non ci si riesce più a confrontare pro veritate. Per i cristiani — chiamati in primo luogo e in ogni circostanza alla massima unità possibile — non essere sempre tutti politicamente dalla stessa parte non è una gioia, né tantomeno una condizione “adulta”. È comunque un dispiacere ma, come spesso è accaduto nella storia, può essere un dispiacere inevitabile. Se però si riuscisse a fare del congresso di cui si diceva un grande momento di confronto fraterno, esso diventerebbe ciononostante un’esemplare testimonianza di fede.
Sin da quando ebbe inizio alla fine del secolo XIX, il riaffacciarsi dei cristiani (e in particolare dei cattolici) sulla scena pubblica ha avuto inevitabilmente un carattere difensivo. È stato sempre un po’ un: “guardate che ci siamo anche noi, che qualcosa di buono può venire anche dalla nostra parte; e infine che le nostre istituzioni hanno anch’esse dei legittimi interessi da tutelare”. Oggi ormai, in questa fase di confuso tramonto dell’età moderna, un tale atteggiamento non ha più senso alcuno. Adesso è invece il caso di imboccare tutt’altra strada da un lato prendendo le mosse in positivo dagli specifici contributi che la gente di fede può dare al restauro se non alla ricostruzione della casa comune di tutti gli uomini; e dall’altro lato elaborando – come si diceva — una «piattaforma» comune sempre aggiornata di valori e di obiettivi di fondo attinti al grande patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, nonché alle esperienze e al pensiero di cui si nutre.
Essere cristiani non è un handicap con cui imparare a convivere, come troppo spesso dà l’impressione di credere persino l’establishment cattolico, laico o ecclesiastico che sia. E nemmeno un elisir ineffabile da gustare solo a bocca chiusa, se ciò fosse possibile. La fede è una grande risorsa. Il motivo per cui innanzitutto è tale attiene alla sfera prima e più profonda della condizione umana, ossia alla domanda sul significato e sul valore dell’esistenza. A valle di questo torno a ricordare qui alcuni contributi di fondo che i cristiani possono specificamente dare al bene comune civile:
Un saldo e solido fondamento del principio di laicità, che è originariamente cristiano: entra nella storia con Gesù Cristo e il suo “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mt, 22,21), e risulta stabilmente fondato solo in aree e in culture di matrice cristiana. Altrove si diffonde soltanto per così dire per osmosi, e fatica a trovare spazio e stabilità. Non solo nel mondo islamico ma pure altrove. Nella storia si è ampiamente attuato solo verso la fine dell’età moderna, ma in ultima analisi sempre in forza delle sue antiche radici cristiane. E sono queste che si oppongono alla sua distorsione in forma laicistica. In una forma cioè che mentre pretende di dargli piena espressione in effetti lo contraddice.
Una salda e solida affermazione del valore primario della persona rispetto e quindi del suo primato rispetto non solo alle istituzioni politiche, allo Stato, ma anche alle nuove potenze dell’era digitale, oggi spesso più potenti e più penetranti del potere politico tradizionale.
La memoria consapevole delle radici cristiane della cultura europea, occidentale, che peraltro costituisce il nucleo principale della civiltà contemporanea in quanto tale. Ignorando tali radici non si riesce più a capire e quindi a governare né l’una né l’altra. Perciò i cristiani, che per definizione ne sono i primi eredi, hanno al riguardo un ruolo tanto ineliminabile quanto importante per tutti.
Il realismo, tuttavia non cinico, che deriva da una concezione dell’uomo, ispirata alla dottrina del peccato originale, che lo vede orientato al bene ma fragile di fronte al male. Tale dottrina mette al riparo da due equivoci opposti in sé ma uguali nelle loro nefaste conseguenze: quello che consiste nel ritenere l’uomo soltanto buono (in pratica non tutti gli uomini bensì un certo popolo ovvero una certa classe sociale) oppure soltanto cattivo, homo homini lupus.
La disponibilità reale a ragionare in termini di lungo periodo che è tipica di chi pensa alla vita terrena come alla prima tappa di una vita eterna, e chi si considera collaboratore di un Dio eterno creatore, eterno lavoratore. L’educazione a vedere il tutto in qualsiasi frammento e quindi ad avere uno sguardo equilibrato e inclusivo su tutta la realtà.
L’eredità di un’esperienza storica che dura da oltre venti secoli e che da lungo tempo è divenuta planetaria; un’esperienza senza dubbio fatta sia di luci che di ombre, ma di certo assai più delle prime che delle seconde.
Ce n’è abbastanza per non stare sulla scena pubblica col cappello in mano.
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