Il mese di febbraio era dedicato dagli antichi Romani alla dea febbre che veniva invocata e ringraziata perché li potesse liberare dalla malaria, che incuteva grande paura. Quel periodo dell’anno era caratterizzato da riti di purificazione, perché alla morte si associava la speranza di una vita rinnovata. Oggi laicamente speriamo almeno di non essere contagiati dalle varie forme influenzali, che – a quanto pare- proprio a febbraio raggiungono il picco. E non solo per colpa del coronavirus, ormai star della cronaca. Quasi un nuovo contrappasso che ci ricorda come etimologicamente il termine influenza, di origine medioevale, rimanda alla lontana paura che gli astri fossero portatori di disastri, cioè potessero influenzare negativamente le vicende umane. Di contro è interessante pensare che la parola influenza porta con sé anche l’idea del fluire, dello scorrere, insomma del passare.
Considerando l’attuale narrazione dell’ epidemia, partita da una provincia cinese, sarebbe, forse, opportuno pensare che le grandi epidemie della storia, da non rilegare ai trattati medici o a pagine di letteratura per lo più profeticamente apocalittiche, abbiano spesso rappresentato un momento di passaggio. Passaggi magari non purificatori ma spesso portatori di qualche scossone al modo di pensare. O più semplicemente aiutano a ricordare. Il che è sempre una sana terapia contro i luoghi comuni e la soffocante banalizzazione.
Tralasciando l’epidemia della cosiddetta spagnola, che fece più morti della prima guerra mondiale, pare che non ci sia voglia di ricordare due terribili influenze del secolo scorso. L’asiatica, pandemia influenzale di origine aviaria il cui virus era stato isolato nel 1954 in Cina e che negli anni 1957-60, quelli che amiamo ricordare per il boom economico italiano, provocò nel mondo circa due milioni di morti. Quel virus si mutò ma ci fu tra il 1968 e 1969 una nuova pandemia, anche se più leggera. Allora la Cina sembrava lontana e -nonostante tutto- tutti sembravano più fiduciosi di noi nella scienza medica. Quanto sta succedendo oggi pare, invece, amplificare il senso di incertezza. E come si sa la non certezza genera opinioni che spesso sono il mostro della ragione addormentata. Da qui incertezza economica nel nostro mondo globalizzato, incertezza sul futuro, e – ancora una volta- il virus della paura del diverso, pur con tanti distinguo. Perché Ebola che provoca da anni morti nel cuore dell’Africa sembra far meno paura del coronavirus cinese? Domanda drammaticamente retorica che si amplifica, però, quando si dichiara che ci sono casi di coronavirus in Africa.
L’inizio del 2020, insomma, ci sta facendo fare i conti con la paura e con le nostre fragilità che tentiamo di superare dando- forse- nuova fiducia ai ricercatori di tutto il mondo, uniti, al di là di falsi sovranismi, nello sforzo di trovare nuovi vaccini. A loro l’arduo impegno, a noi forse è necessario trovare un nuovo vaccino. Il fascino della catastrofi, quali pandemie seminatrici di morte in un futuro apparentemente lontano, ha spesso alimentato l’immaginazione di scrittori, giallisti, autori di thriller e artisti e calamitato con giuste dosi di adrenalina i lettori. Anzi hanno avuto la funzione terapeutica di far pensare alla minaccia del male come qualcosa di lontano, quasi fuori dal tempo. Se è vero che la letteratura e il cinema non sono guaritori, è altrettanto vero che possono essere buone medicine. Lo sono quando sembrano profezie dell’oggi, come il romanzo del 1981 The Eyes of Darkeness di Koontrz, ultimamente molto citato dai mass media perché sembra anticipare con incredibile precisione l’attuale epidemia, o il film Contagion del 2011 di Steven Soderbergh, con l’affannosa ricerca di un vaccino per arginare il rischio di una pandemia mondiale iniziata – guarda caso – in Cina. E diventano poi cure più adeguate le parole di grandi scrittori, come Camus con la sua peste, senza dimenticare le pagine visionarie, anticipatrici quasi di un genere letterario, di London con la sua peste scarlatta del 1912. Su un sito internet, Leggi che ti passa, quasi scherzosamente si dice che pandemia oggi fa tendenza tra i lettori. Forse quanto sta succedendo, le città isolate per la quarantena, parola riemersa con forza da un oblio collettivo, il modo di diffondere le informazioni, come ha fatto la potentissima ma – di fatto- poco democratica Cina, merita di più. Forse possiamo riconoscerci nella bambina Anna dello struggente e omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. La piccola sopravvissuta ad una letale epidemia in cui soltanto i bambini potevano salvarsi scopre un libretto con le istruzioni di sopravvivenza scritte da sua mamma. Ma scopre qualcosa di più importante, cioè che le regole del passato non valgono più e che dovrà inventarne di nuove.
Chissà forse nel mondo globalizzato è quanto dobbiamo anche noi fare.
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