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Attualità

VIRUS/4 MESSA DA PARTE

SERGIO REDAELLI - 28/02/2020

messeChiese aperte, ma stop alle Messe nella diocesi di Milano (di cui Varese fa parte) dalla sera del 23 febbraio fino a data da definire. Lo ha disposto l’arcivescovo Mario Delpini in seguito all’ordinanza emanata dalla Regione Lombardia, in concerto con il ministero della Salute, che vieta lo svolgimento di manifestazioni affollate, anche religiose. Già da sabato 22 febbraio, il vicario generale Franco Agnesi aveva deciso che durante le liturgie del sabato e della domenica la comunione fosse distribuita in mano e non in bocca. E in alcune parrocchie i parroci hanno fatto svuotare le acquasantiere e invitato i fedeli a non stringersi la mano durante il rituale scambio della pace.

Il rischio di contagio da coronavirus attiva le precauzioni delle autorità religiose, cambia le abitudini dei fedeli e solleva polemiche. C’è chi critica “l’applicazione supina” delle decisioni governative “quasi che le Messe fossero partite di calcio”. I provvedimenti riguardano 1100 parrocchie diocesane. Il duomo di Milano è chiuso alle visite dei turisti e gli oratori, considerati luoghi di aggregazione, cancellano le riunioni. Solo i parenti stretti sono ammessi ai matrimoni e ai funerali. Per chi sa usare il web ci sono le celebrazioni in diretta streaming. È possibile seguire il rito feriale sul portale della diocesi www.chiesadimilano.it e in video su ChiesaTv (canale 195 del digitale terrestre).

Luoghi di culto aperti e Messe sospese anche nel resto della Lombardia e dell’Italia settentrionale, da Genova a Torino, da Ferrara a Verona, da Piacenza a Bologna. Nel patriarcato di Venezia, sono annullate le liturgie e le devozioni della Via Crucis fino al 1 marzo. In sostituzione del precetto festivo e del mercoledì delle Ceneri, i fedeli sono invitati alla preghiera personale e alla meditazione ricorrendo alle celebrazioni trasmesse alla radio e alla tv. I parroci del quartiere di Sturla (Genova), del comune di Bibione (Venezia) e le parrocchie dell’unità pastorale di Bresso (Milano) trasmettono la Messa in diretta-live su Facebook e la diocesi di Padova utilizza il canale Youtube.

Nella Città del Vaticano il personale sanitario, in caso di positività al coronavirus – al momento non rilevato – annuncia che metterà in atto le procedure previste dagli accordi con il Ministero della Salute e rinvia gli appuntamenti in luoghi chiusi. La presidenza della Cei, la Conferenza episcopale italiana, assicura “piena collaborazione alle competenti autorità dello Stato e delle Regioni per contenere il rischio epidemico” e garantisce la massima disponibilità a ricevere e applicare le disposizioni emanate dall’autorità civile. Nell’emergenza dunque la Chiesa sollecita i fedeli ad adeguarsi a misure di buon senso, invita ad evitare allarmismi e si premunisce contro i possibili rischi.

Sarebbe sbagliato sottovalutare i segnali di quella che non è tecnicamente una pandemia, ma che potrebbe diventarlo e saltano all’occhio le differenze con un passato fortunatamente remoto. Di segno opposto fu la reazione ai rischi di contagio in occasione della cosiddetta “peste di San Carlo” nel biennio 1576-1577 quando i rapporti tra la fede e la scienza, tra la Chiesa e la società civile, erano drammaticamente conflittuali. Rileggere le cronache di quei giorni è ancora oggi istruttivo. Le conoscenze scientifiche erano scarse se non inesistenti su certe malattie e la mentalità incline e fare diagnosi empiriche sulla natura del morbo e sulle cause della diffusione.

Carlo Borromeo era fermamente convinto che i flagelli pubblici fossero conseguenza dei disordini morali e di vita corrotta – scrive Luigi Crivelli biografo del santo – da qui la sua persuasione che per scongiurarli fossero più efficaci le processioni e i pii esercizi che non le fragili cautele suggerite dai magistrati e le non univoche ricette mediche”. Così il flagello del 1576 è passato alla storia come “peste di San Carlo” non solo perché infestò Milano durante il suo apostolato e lo ebbe infaticabile pastore nell’organizzazione dei soccorsi, anche a rischio della propria vita, ma perché il contagio si diffuse proprio con gli assembramenti religiosi che egli favorì.

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