Una persona buona. Ecco cos’è stato innanzitutto Giampaolo Cottini, d’improvviso salito al Piano Superiore, ma -come quelli che sanno riempire le esistenze degli altri- senza lasciare un vuoto. E invece lasciandoci colmi di sé stesso. Ovvero: la sua intelligenza, la sua umiltà, la sua dolcezza, la sua misericordia. Tenuti insieme a lungo, da sempre e per sempre, in uno stile di vita che non voleva essere d’insegnamento, ma proprio perciò lo era.
Non ho titoli per valutare i suoi meriti nel mondo accademico, culturale, sociale e naturalmente religioso. Sono molti, riconosciuti e tanto basta. Ne ho invece per ricordarne la figura sin da quando, ragazzi, frequentavamo il liceo classico nella medesima classe. Gipì era il più bravo, e insieme il più modesto. Mai un cenno d’albagia, numerosi di gentilezza. Il quaderno degli appunti, comodo da decifrare in quella scrittura goticheggiante di tratto marcato, sempre a disposizione dei compagni distratti o bighelloni. E sempre pronto il disvelamento di lezioni sfuggite per una fuga nei bagni del Cairoli a fumare, o per una bigiata causata dal timore d’una interrogazione tremendista. Quando vennero gli esami di maturità, mise a disposizione il curioso torrino della sua villa di Casbeno ai bisognosi di recupero nozionistico. Da primus inter pares riepilogava, riassumeva, richiamava. Un formidabile professore aggiunto. Senza un simile aiuto, durato due settimane di fila, alcuni di noi forse non ce l’avrebbero fatta. Io, no di sicuro.
Convinse la brigata d’amici anche a partecipare ai ‘raggi’ di Gioventù studentesca. Era un passo avanti (dieci passi avanti) nell’occhieggiare l’orizzonte umano, e -sapendo guardare oltre- raccomandò l’adesione a incontri che avrebbero permesso d’alzare un po’, almeno un po’, il paraocchi. Gli demmo retta, sia pure con monellesca discontinuità. Seguì, in anni maturi, la gratitudine.
Ci perdemmo di vista durante gli studi universitari, ch’egli concluse sollecito mentre io arrivai da ritardatario al traguardo della laurea, avendo nel frattempo iniziato la totalizzante avventura giornalistica. Ma proprio il giornalismo ci riaccostò. Gli chiesi di scrivere editoriali per il quotidiano varesino, di cui ero divenuto parte decisionale, e Gipì acconsentì a un patto: che rendessi popolare la sua narrazione etico-filosofica. Si trattava d’un modo generoso d’attestare stima verso la mia professione. Non si rese mai necessario modificare una sola virgola dei suoi articoli, che avevano il pregio di spiegare con parole semplici concetti difficili.
Il sodalizio ha trovato continuità a RMFonline, di cui Cottini è stato uno dei fondatori. Sino a quando la malattia non s’è imposta obbligandolo alla resa, ha regalato ai lettori interventi d’acutezza interpretativa del vissuto contemporaneo. Detto in concreto: erano pezzi, come chiosiamo noi in gergo, che dettavano la linea. Sembrandomi strano che, sic stantibus rebus, fossi io il direttore e non lui, gli proposi -e sollecitai padre Gianni a proporglielo- d’assumerne almeno la carica, se non il ruolo. Dopo una serie di cortesi rifiuti, chiuse la storia invitandomi a cena: l’unica direzione che si sentiva d’indicarmi, disse facendomi accomodare al tavolo di noce coperto da una tovaglia avorio, era quella del posto a sedere.
Forse non per caso Gipì è andato su, dove accennavo nell’incipit, durante ore battute dal vento, in un’alba di luce, nello sfolgorìo dei colori. È come se il fato, o qualcos’altro di diverso nome che appartiene all’immaginario fideistico collettivo, avesse voluto scortarlo con ogni possibile onore d’ambiente. Ciao, carissimo Gipì, ti faccio segno oggi di quel che non ho mai osato e avrei dovuto da tempo: una carezza.
Alla moglie Angela, ai figli Paolo, Andrea, Luca e a tutti i familiari le condoglianze di RMFonline
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