La Business Shool del Cuoa e l’Università di Padova (direzione scientifica del professor Andrea Furlan), hanno concluso un’interessante ricerca sulla diffusione delle buone pratiche manageriali nelle aziende italiane. Tra gli scopi dichiarati figura anche quello di misurare l’utilizzo di alcune pratiche che hanno un diretto impatto sugli indicatori economico finanziari delle piccole e medie imprese manifatturiere.
Le aziende che le utilizzano raggiungono quasi il 9% in più di produttività in termini di valore aggiunto per addetto, rispetto alle organizzazioni che trascurano queste componenti aziendali. Sul campione utilizzato, circa 500 imprese soprattutto del nord Italia, solo il 16% adotta modelli Oelm in modo continuativo. L’acronimo sta per: Operational Excellence e Lean Management (Eccellenza Operativa e Produzione Snella).
La ricerca dimostra come, sotto il profilo della redditività, le imprese “lean oriented” dichiarino un Ebitda (il margine operativo lordo) superiore del 4,2% rispetto alle altre. Questo significa che su un fatturato medio annuo di 50 milioni di euro, le imprese migliori guadagnano oltre due milioni in più rispetto alle aziende che non applicano le buone pratiche manageriali.
L’altro dato significativo, quello sulla produttività del lavoro, sottolinea che il valore aggiunto per addetto delle imprese migliori, è superiore dell’8,7% rispetto alle altre e in termini monetari, per ogni addetto, il differenziale è di circa 6.000 euro.
Confrontando i dati della produttività del lavoro tra Germania e Italia degli ultimi vent’anni, possiamo verificare che da noi la crescita è stata dello 0,4% annuo, mentre in Germania dell’1,6%. Il problema della produttività italiana inizia alla fine degli anni Settanta.
Per migliorare una simile situazione, le soluzioni devono riguardare riforme strutturali rivolte: all’adozione delle tecnologie digitali, al mercato del lavoro, al welfare, all’educazione, alla Pubblica Amministrazione, alla Magistratura.
C’è un’ultima ragione che spiega la scarsa produttività delle nostre imprese: la gestione e il management. Quanto indicato nella ricerca non è certamente una novità, infatti le pratiche in questione nascono in Toyota nel secondo dopoguerra e sono state lanciate nel mondo occidentale negli anni ’90.
Ho ripreso l’argomento perché le conclusioni raggiunte dai ricercatori sono le solite: la scarsità delle risorse e degli investimenti dedicati alla formazione e all’innovazione, al cambiamento manageriale. Oramai persino i frequentatori dei bar e delle bocciofile sanno che la radice del declino economico Italiano risiede anche nella scarsa produttività. Essa non è altro che la misura della quantità di valore che si estrae da una unità di input (un oggetto, un servizio). Però questa unità è influenzata anche da numerosi fattori “esterni” all’azienda e che incidono sulla sua operatività. Provo a riproporne le componenti principali:
- Le tecnologie digitali. Molte imprese del Varesotto sono all’avanguardia e stanno utilizzando al meglio i contributi messi a disposizione dall’ Industry 4.0; questo aspetto è suffragato dalla grande diffusione delle esportazioni;
- L’educazione attiene al comportamento generale, compreso il mondo del lavoro. È un valore che dovrebbe nascere in famiglia e svilupparsi nel tempo attraverso il continuo confronto con gli altri.
- Il welfare, uno dei pilastri su cui poggia il nostro stato sociale. Per comprenderne il significato autentico e nobile suggerirei di visitare, per qualche tempo, gli ospedali e le scuole al fine di chiederci cosa accadrebbe se non ci fossero e non svolgessero la loro “missione”. Ovviamente valutando/apprezzando l’impianto costi/benefici. Si tratta di un bene prezioso che merita un elevato rispetto anche se, nel sistema, sono possibili ulteriori economie di scala.
- La Pubblica Amministrazione. In questo settore non va dimenticata la supponenza di molti operatori. La loro attività è spesso criticata perché svolta con scarsa attenzione verso i propri doveri. Non solo, è ulteriormente svilita dall’ossessivo orientamento all’allocazione dei diritti, sino a raggiungere la fuga dalle responsabilità. Quelle che Sabino Cassese riepiloga nella considerazione: “fanno lo sciopero della firma”. La burocrazia sa solo ripetere dei “no” o citare sempre nuovi e ulteriori vincoli amministrativi per fornire questa risposta!
- Il mercato del lavoro. Da tempo gestito in qualche modo dalle aziende private e dette anche “interinali”. Gli ex uffici di collocamento, oggi centri per l’impiego, aspettano i nuovi navigator e non dispongono di un sistema centralizzato a cui rivolgersi per incrociare le offerte con le domande di lavoro sull’intero territorio nazionale.
- La gestione e il management. I sistemi gestionali dovrebbero essere tutti automatizzati. Sulla managerialità ci sono troppe carenze. Il punto critico rimane focalizzato sullo sviluppo dell’innovazione e la presa di decisione. Gli imprenditori dovrebbero pensare di più al ritorno dei loro investimenti e a cosa potrebbe accadere se mantenessero una delocalizzazione cercata solo per avere costi inferiori sulla manodopera, oppure per aver privilegiato la scelta di un paradiso fiscale. Gli acquisti delle persone sono diventati più selettivi e attenti alle componenti ecologiche e morali.
- La Magistratura. Evito le recenti considerazioni sulla prescrizione per recuperare una forte richiesta proveniente dai cittadini che recita: “Chiudete in una stanza i migliori rappresentati della politica, della magistratura, degli avvocati, delle persone già coinvolte in procedimenti giudiziari e fateli uscire solo quando avranno raggiunto un giusto accordo sulla revisione del processo penale ma anche civile”.
La loro durata è doppia rispetto alle stesse situazioni gestite nel resto dell’Unione Europea. Sempre se è valida la norma costituzionale “La legge è uguale per tutti”.
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