Alcune riflessioni di Roberto Saviano in occasione della Giornata della Memoria mi hanno ricordato che dovremmo prestare maggiore attenzione alle parole che fanno parte del linguaggio comune.
Saviano ha citato il tedesco Klemperer, autore di un libro in cui dimostra come nella Germania nazista sia stato il linguaggio a determinare il comportamento sociale.
Il male si annidava nella normalità del quotidiano, nei discorsi che si facevano a casa, nelle parole che si spendevano nei luoghi di lavoro, nelle frasi, nelle locuzioni che essendo ripetute milioni di volte diventavano scontate.
Non erano i lunghi discorsi di Hitler e Goebbels, trasmessi incessantemente dalla radio, a costruire un pensiero collettivo distorto. Non erano neppure i frequenti proclami veicolati con diverse modalità a condizionare i comportamenti delle persone: in pochi davvero si rendevano conto del reale significato del linguaggio usato per definire, denigrare e distruggere il nemico.
La gente comune continuava la vita nei luoghi di sempre, nelle case, nelle fabbriche, negli uffici e nelle osterie mentre la radio inoculava il virus dell’odio e del fanatismo che si infiltrava nelle parole rendendo accettabili ad esempio espressioni come “spedizione punitiva”. Questa pratica, nella realtà del linguaggio, si mutava in un’azione buona in quanto raccontata come una forma di pulizia positiva all’interno di quartieri disagiati.
Proprio nella normalizzazione del linguaggio d’odio si realizzava la vittoria dell’ideologia nazista perché, sostiene Klemperer, è l’abitudine ad usare determinate parole a cambiare il pensiero.
Per questo è importante saper riconoscere il momento in cui nelle parole e nelle frasi di uso quotidiano si sta annidando il seme della lenta accondiscendenza a pensieri socialmente negativi.
A illuminarmi su come sia facile tale mutazione delle parole è stato un educato ragazzino di scuola media.
Sosto in una lunga fila davanti al banco della Frecciarossa per effettuare un cambio di prenotazione. Mentre procedo lentamente presto orecchio ai discorsi degli altri viaggiatori.
Davanti a me un padre in viaggio con due figli, un bambino e un ragazzo.
È una giornata convulsa di cancellazioni e ritardi; il ragazzo teme di dover viaggiare in piedi. Si lamenta per la cancellazione del loro treno e si augura di trovare presto una sistemazione.
Mi giunge chiara la sua frase: “Speriamo che non ci tengano in piedi come ebrei” che mi suona molesta anche in assenza termini offensivi, razzisti o antisemiti.
Metto a fuoco: è la similitudine “in piedi come ebrei” ad avermi colpito, il ricorso all’immagine di persone in piedi, in un treno affollatissimo, strette e ammassate come animali.
“Come ebrei” sarebbe dunque il sostituto di “come animali”.
Ma se l’essere ebreo indica l’appartenenza a una religione, allora si sarebbe potuto dire anche “in piedi come cristiani” o “in piedi come buddisti”. Invece no.
Dunque l’essere ebreo diventa una forma mentale che consente di concretizzare l’idea di un grave disagio. Deriva direttamente dalla realizzazione del progetto criminale di Hitler che ammassava gli ebrei sui treni in direzione dei campi di sterminio.
Ragiono sull’uso inconsapevole della proprietà transitiva. Il ragazzo, che è venuto a conoscenza delle vicende della Shoah, è ricorso in automatico a questo termine di paragone.
Nella normalità del quotidiano il linguaggio si è arricchito di modi di dire scorretti come “lavorare come un negro”, “bestemmiare come uno scaricatore di porto”, “vestirsi come uno zingaro” e via di questo passo.
Sarebbe bene pensare alle frasi che possono nascondere indifferenza, disprezzo, odio per il prossimo: non ci dobbiamo né abituare né assuefare.
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