Ci si incontrava nel grande bar di via della Conciliazione verso le 11 (orario canonico romano) a prendere il cappuccino e il cornetto. I “superiori” (come li chiamavamo!) della Presidenza Generale dell’Azione Cattolica Italiana erano impettiti nei loro vestiti grigio Londra, con distintivo dorato all’occhiello, noi della presidenza dei giovani eravamo più disinvolti, forse troppo ridanciani, per nulla ossequiosi verso i prelati in veste filettata di rosso, gli “intellettuali” (i fucini e i laureati) si univano volentieri a noi nel darci o nel raccogliere gli ultimi ragguagli sugli autori che potevamo acquistare sotto banco alla vicina libreria San Paolo: Mazzolari, De Chardin, De Lubac, Balducci…
Sciamavamo alla spicciolata dagli uffici dell’imponente struttura al numero 1 ( al secondo piano regnavano Gedda e i suoi accoliti; noi giovani occupavamo il terzo e il quarto piano), mentre fucini, laureati e maestri uscivano dal portone del civico 3. Al bar, diviso da archetti e colonnine e illuminato da grossi fari, affollato di turisti e pellegrini,tra il vociare dei clienti, sovrastavano le nostre grasse risate.
Fu lì, che qualcuno mi presentò – era l’ottobre 1958 – un signore di mezza età: molto gentile nel portamento e altrettanto affabile, portavaocchiali con spesse lenti e il suo linguaggio era ingentilito, oltre che dai modi amichevoli, da una “erre” fiorente che gli usciva assieme a una leggera flessione bolognese: era Vittorio Bachelet ed era il vice-presidente nazionale dei laureati di Azione Cattolica. Mi dissero che insegnava diritto amministrativo a Pavia. Ci stringemmo la mano. Ci rivedemmo più volte e ci salutavamo appena. Ma alcuni anni dopo ci capitò, a sera inoltrata, di fare un tratto di strada assieme. I pensieri che ci scambiammo erano da lui introdotti con confidente cautela, mentre io ero piuttosto avventato nel giudicare fatti e audace nel prospettare il futuro.
Fu quell’uomo, Vittorio Bachelet,a riformare l’Azione Cattolica Italiana.
Per capire quanto fosse stato coraggioso nel condurre la maggiore organizzazione dei laici italiani verso la “scelta religiosa”, come fu chiamata, occorre conoscere la stagione precedente, quella del “clero di riserva” come un sociologo definì l’associazione. Prima dell’avvento al pontificato di Giovanni XXIII, l’A.C. viveva “i giorni dell’onnipotenza”, come li chiamò Mario Rossi, successore di Carlo Carretto alla guida dei giovani cattolici. L’associazione era fortemente strutturata in modo gerarchico e controllata dai vescovi dell’Alta Direzione dell’Azione Cattolica, sempre timorosi di derive ideologiche da parte di noi giovani. Era un’organizzazione che nel 1955 contava più di tre milioni d’iscritti (i giovani superavano le 584.000 unità), stampava decine di giornali e riviste, oltre che un quotidiano. Soffriva di “collateralismo”, cioè di vicinanza, se non di collaborazione, con la D.C., alla quale offriva dirigenti per i suoi quadri e dalla quale riceveva – bisogna ammetterlo – favori e privilegi. Era incriminata, inoltre, di clericalismo perché i suoi dirigenti erano nominati dai parroci e dai vescovi,i presidenti generali e centrali dal Papa in persona da cui erano ricevuti frequentemente in udienza.
Arrivato Giovanni XXIII al soglio di Pietro – provai la gioia di assistere alla sua elezione in piazza San Pietro il 28 ottobre 1958! – le cose cominciarono a cambiare. Per prima cosa “ringraziò” per il lavoro svolto Luigi Gedda e nominò al suo posto Agostino Mattarello mettendogli accanto, come suo vice, proprio Vittorio Bachelet; licenziò il card. Siri dalla Presidenza della direzione episcopale dell’A.C. e lo sostituì con l’innocuo vicegerente di Roma Traglia.
Quando noi, dirigenti della gioventù, fummo ricevuti in udienza dal nuovo papa, capimmo che il suo incoraggiamento era piuttosto tiepido. Non tenne un discorso, ci salutò uno per uno, intercalando ricordi, battute, dispensò sorrisi e alla fine ci raccomandò “la formazione interiore”: musica per coloro che non tolleravano più le grandi adunate, le manifestazioni, i raduni, ma preferivano la riflessione e l’approfondimento della propria vocazione alla professione, alla famiglia, all’impegno nello stato democratico assieme ad una vita di Chiesa vissuta soprattutto nella liturgia e in quello che allora si chiamava “catechesi”.
E venne il Concilio. Noi giovani seguivamo i lavori attraverso la stampa e ascoltavamo le vive testimonianze di vescovi e periti che spesso invitavamo a cena. Eravamo sì attenti all’ “aggiornamento” delle istituzioni della Chiesa, ma eravamo più interessati alla dinamica, al rinnovato rapporto tra chiesa e mondo, in cui tradizione e profezia si nutrissero reciprocamente. Notavamo nei colloqui con i nostri interlocutori certamente difficoltà, tensioni, contrapposizioni,ma le costituzioni “Gaudium et Spes” e “Lumen gentium” ci fecero comprendere il nostro nuovo ruolo di laici nella Chiesa e nel mondo. La Chiesa non era più una cittadella arroccata da difendersi dal mondo, suo insidioso nemico, anzi dovevamo vivere “nella città degli uomini”. Non tutti erano entusiasti come noi:i “superiori” si ergevano a difensori della cristianità, tanto più che a quell’epoca si incominciava a dialogare con i socialisti, che erano visti da molti come anticlericali, marxisti, mangiapreti.
Venne Paolo VI. Ricevemmo un primo indizio del suo modo di concepire l’Azione Cattolico con la nomina di monsignor Franco Costa, già assistente centrale della FUCI e grande amico di Montini, che lo spostò dalla diocesi di Crema, di cui era vescovo da pochi mesi. Costa conosceva molto bene Vittorio Bachelet, che, nel 1964, fu nominato dal Paolo VI° presidente generale al posto del giubilato Mattarello. E incominciò il nuovo corso, quello che genericamente viene chiamato la “scelta religiosa”.
L’impegno di Bachelet era quello di rinnovare l’A.C. per attuare il Concilio. La “scelta religiosa” non andava letta come rinuncia a una pesante interferenza nelle vicende politiche, ma voleva “cogliere e far crescere i valori umani, essere fermento cristiano nella realtà umana, nella famiglia, nella cultura, nelle istituzioni sociali: non quasi contrapponendosi ad esse, ma vivendo da cristiani in esse; non fazione tra fazioni, non organizzazione di potere, ma sale e luce del mondo.” Voleva essere una forma di profondo rispetto dell’autonomia dei cattolici operanti in politica.
Fu data un’ermeneutica erronea dell’espressione: la democratizzazione interna introdotta dal nuovo statuto, la nascita di nuovi movimenti ed associazioni ecclesiali, il ’68 e la forte diminuzione degli iscritti, il disorientamento tra i vescovi fecero rientrare i cattolici nelle sacrestie. Bachelet con mitezza, umiltà, prudenza portò l’associazione verso il cammino dell’impegno della “formazione interiore” capace di leggere i segni dei tempi per giudicarli alla luce della fede.
Mentre Bachelet stava per essere nominato presidente generale, io lasciavo la Gioventù Cattolica ed entravo nel mondo dell’insegnamento. C’incontrammo in altre occasioni e lo salutai il giorno del suo commiato da questa terra.
Bachelet ha amato l’A.C, perché amava profondamente la Chiesa da laico, con fede convinta e motivata. L’amò attraverso la sua docenza universitaria a Pavia, a Trieste e a Roma operando per una cultura a favore dell’uomo. L’amò con un servizio alla politica e alle istituzioni democratiche fino al sacrificio estremo. Questo suo amore per la Chiesa nasceva da una profonda giustizia che lo portava ad avere fiducia in tutti, convinto che la persuasione valesse più di ogni insistenza o forzatura.
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