Nel giro di quindici giorni o poco più Malpensa, l’aeroporto lombardo che i milanesi non amano, è passato, nel vorticoso dici e disdici dell’informazione senza bussola di oggi, dai buoni risultati all’allarme, dalla vendita di una quota del 25 % di SEA da parte del Comune di Milano alla quotazione in borsa. Un tourbillon di notizie in cui è davvero difficile capire qualcosa, farsi un’idea della posta in gioco, stabilire quali siano gli interessi da salvaguardare in via prioritaria. Solo un dato è certo e incontrovertibile in questa telenovela dai colori tipicamente italiani: Malpensa è uno scalo che a parole tutti volevano ma che nei fatti in molti hanno boicottato, a cominciare da Alitalia, oggi CAI, che se ne è tornata nella sua adorata culla romana, salvata dal governo Berlusconi con i soldi di tutti i contribuenti dopo aver fatto saltare, in nome di un finto patriottismo di maniera, i più vantaggiosi accordi con Air France. E questo è stato per lo scalo gallaratese un colpo da kappao.
Ma come accade nel pugilato vero, il colpo decisivo è arrivato dopo un lungo lavorio al bersaglio grosso – come si dice in gergo.
Contro lo scalo hanno giocato molti fattori negativi concomitanti ma certo non innocenti: 1) i collegamenti all’inizio e fino a questi ultimi anni quasi nulli, una quarta corsia della A8 fino a Busto Arsizio poi l’imbuto della vecchia superstrada e il Malpensa Express, linea nuova di una ferrovia comunque regionale e minoritaria come le Nord. Chi avesse voluto raggiungere Malpensa coi mezzi pubblici, poniamo da Lodi, avrebbe affrontato un viaggio penitenziale dagli esiti del tutto incerti e così da tantissime altre località; 2) la struttura è nata e cresciuta senza un piano industriale degli scali lombardi e dell’alta Italia viste le iniziali ambizioni di Hub del Nord. Parole e convegni costosissimi tanti, decisioni nessuna, così tutti hanno continuato a coltivare in santa pace il proprio aeroporto sotto casa, domestico, con quali diseconomie è facile immaginare; 3) la logica e gli esempi dei paesi europei a noi vicini imponevano un drastico ridimensionamento di Linate, dove si potevano lasciare numerosi voli interni e la navetta Milano-Roma, la gallina dalle uova d’oro oggi monopolio Alitalia alla faccia delle liberalizzazioni del tandem Berlusconi – Bossi.
Se i collegamenti col contagocce sono arrivati altrettanto non si può dire del piano organico degli scali. Intanto Linate ha continuato a funzionare come e più di prima. Quello di non ridimensionare il Forlanini è stato un patto trasversale all’interno dell’establishment milanese e romano che non ha esitato a screditarlo sul nascere anche grazie a campagne giornalistiche ad hoc. Arrivavano da Roma gli esimi colleghi e si avventuravano in brughiera verso il fiume azzurro, come dentro un romanzo di Joseph Conrad narravano di nebbie e brume ostili, la valle del Ticino come l’ingresso a una foresta pluviale.
A questa campagna di screditamento non è stata certo estranea neppure la “gauche caviar” nostrana, quella dell’area C milanese per intenderci, che dei trasporti lombardi ha sempre avuto una concezione assurdamente Milanocentrica. In questo clima hanno avuto buon gioco le grandi compagnie che hanno lasciato Malpensa per tornare a Linate con le loro piccole controllate e seguitare così a convogliare utenti nei loro hub a Parigi, Londra, Francoforte. Il vero nodo del problema è questo, se non lo si scioglierà lo scalo varesino sarà destinato a vivacchiare in eterno. Il Comune di Milano, azionista di maggioranza della SEA, deve superare le residue trasversali resistenze e operare una scelta definitiva in favore di Malpensa dopo aver esplorato con prudenza la strada della quotazione in piazza Affari. Esattamente il contrario di ciò che è stato fatto dalle giunte Albertini e Moratti.
You must be logged in to post a comment Login