Lunedì 10 febbraio si è celebrata la Giornata del Ricordo delle Foibe, tema complesso, scottante e a lungo divisivo.
Nei giorni immediatamente precedenti non sono mancati convegni, incontri, dibattiti all’interno di sedi istituzionali, scuole, biblioteche, sale pubbliche della provincia.
La commemorazione degli eventi legati alle foibe è avvenuta alla luce del sole: tutto regolare, tutto tranquillo, come dev’essere in una democrazia che accetta di affrontare qualunque argomento e di dare spazio a ogni voce.
In questa giornata da qualche anno Varese accoglie una manifestazione organizzata da gruppi di estrema destra facenti capo ad alcune delle sigle più conosciute: raduno dalle 19 nel piazzale della stazione dello Stato con partenza del corteo alle 21 e 30.
I convenuti aumentano di ora in ora, rinforzati ad ogni arrivo di treno che porta altri gruppi da Milano, Como, Canton Ticino.
Imponente l’apparato delle forze dell’ordine, presente nei punti chiave del percorso.
Un lungo corteo si snoda dalla stazione alla piazza centrale della città, alla luce delle torce. Circa quattrocento persone di diverse età sfilano suddivise in cinque lunghe file parallele, al suono di un tamburo e si fermano ogni volta che il capo riconosciuto legge, gridandole al megafono, le ragioni della manifestazione.
Siccome non sono ammesse bandiere di partito numerosi tricolori sventolano ritmicamente durante la marcia: per la prima volta il simbolo della mia nazione mi sembra un lugubre vessillo da funerale.
Le continue soste del corteo, con gli uomini fermi a gambe divaricate, richiamano alla mia mente altri cortei, altre sfilate lontane nel tempo che, per fortuna, ho visto solo nei film e nelle foto di repertorio.
Scarso il numero degli osservatori, data l’ora. Si sono fatte le dieci e ci sono pochi passanti: lavoratori dal passo veloce, provenienti dalle vicine stazioni, qualche signore uscito per l’ultima passeggiata con il cane, ragazzi che rientrano o escono forse per raggiungere i luoghi della movida.
Tre giovani si fermano e chiedono notizie dell’evento. Le ragazze, due, sembrano spaventate dalle modalità militaresche del corteo.
La ragazza mora mostra stupore alle mie spiegazioni, chiarisce che lei è contro ogni totalitarismo.
Quella bionda non si sente di dare giudizi su cose che non conosce. Mai sentito parlare di Hitler e di Mussolini? le chiedo. Beh sì, qualcosa, risponde senza molta convinzione.
Un signore fermo sul marciapiede si informa: siamo anche noi di Fiume? Perché lui segue la manifestazione in rappresentanza della madre troppo anziana per essere presente.
Io invece sono qui per osservare, da lontano, i volti dei partecipanti al corteo. Per contare il numero dei giovani: tanti. Per vedere quante donne: circa una cinquantina, per lo più ragazze.
Due di loro, giovanissime, alla testa del corteo reggono la corona di fiori.
Pochi stivali di quelli che rimbombano sull’impiantito, retaggio dei tanti film visti sul tema del nazifascismo. La maggior parte dei giovani calza scarpe da tennis e indossa i jeans.
Nelle ultime postazioni avanza un ragazzino, giovanissimo, tredici anni al massimo, curato a vista dal padre.
Il silenzio della sfilata, ogni qualvolta riprende la marcia in una Varese quasi deserta, risuona inquietante.
Lascio la mia postazione.
Mi rincuora, in questa cupa notte di febbraio, il pensiero di essere parte attiva di una democrazia compiuta, sempre valida nonostante i limiti e le debolezze, e garantita dalla Costituzione.
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