Davvero lo scontro sulla prescrizione – Pd e M5s da una parte, Italia Viva dall’altra- innescherà la crisi di governo? E’ una partita di dadi: esito consegnato all’azzardo. Al netto del deludente spettacolo, che va in scena mentre una serie d’emergenze collassa il Paese, è da annotare quanto segue. Renzi un primo risultato l’ha colto: indurre Pd e M5S a ridiscutere la normativa giudiziaria in vigore da gennaio. E un secondo scopo l’ha conseguito: dare visibilità al profilo garantista del suo partito-mignon, a caccia di maxi-simpatie moderate. Ma ottenere un terzo risultato, gli ricorda la vecchia volpe Pier Ferdinando Casini, sarebbe troppo: ovvero la caduta di Conte con immediato rinnovo dell’esecutivo a guida d’un nuovo premier. Per durare fino al 2023 consentendo a questo Parlamento d’eleggere il capo dello Stato nel 2022.
Vedremo se ha ragione Casini. O se prevarrà la strategia di Renzi. Tre ipotesi. 1) Le acque d’improvvisano si chetano, grazie a un rimpasto di governo -magari affidando al Matteo fiorentino gli Esteri- e alla distribuzione, con gradimento d’innumerevoli bocche grondanti acquolina, delle tante nomine in scadenza nel carrozzone di Stato. 2) Vince la partita il presidente del Consiglio, che scarica Renzi e dà vita al Conte 3.0 sostituendo nella neo-maggioranza Italia Viva con un gruppo di “responsabili” di provenienza trasversale. 3) Fa bottino pieno Renzi, che manda a casa Conte e ottiene un nuovo presidente del Consiglio, da scegliersi tra l’attuale ministro dell’Economia Gualtieri e una clamorosa new entry, Mario Draghi, così passando da un governo politico a un governo istituzionale. Punto in comune delle tre evenienze: non chiudere anzitempo la legislatura.
Ma l’ostacolo all’ipotesi uno, due e tre è il presidente della Repubblica: se a colpi di bizantinismi verrà meno la maggioranza di oggi -ha fatto sapere- si andrà alle elezioni domani. Peraltro Mattarella è tenuto a osservare rigidamente i numeri. Qualora gliene sottoponessero di sufficienti a garantire il sostegno a un purchessia governo, direbbe sì invece che no. Dunque il mischione appare lungi dall’esaurirsi, pur se la nostra turbolenta politica ci ha abituato a ogni strabiliante gioco di prestigio.
Nel caso di ritorno al voto, chi avrebbe da perderne e chi da guadagnarne? Da perderne il centrosinistra, da guadagnarne il centrodestra. Qui sta il rischio di Renzi: che fine farebbe la sua neonata formazione, indicata di scarsa consistenza dai sondaggi? Una pessima fine, secondo l’opinione generale. E qui sta anche il rischio di Salvini, favorito dall’infelice idea parlamentare di mandarlo a processo per il caso Gregoretti: non è detto che la Meloni, in costante ascesa di consensi, più che un alleato si riveli una concorrente. Magari con il beneplacito di Berlusconi. Il proporzionale permette ogni sorta di scherzo.
Non è dunque scontato che l’acrobatico muoversi garantisca a Renzi il ruolo di erede del maggior recettore di fiducia liberalmoderata del Paese. Ovvero ciò che fu il Cavaliere e, in mancanza di suoi epigoni, non è capace d’essere Salvini, anche se il suo radicalismo rende oltre il trenta per cento. E’ invece scontato che gl’italiani sono stufi dei mestieranti del gridare continuo. Difatti Conte, cui non dispiace l’idea d’una futura lista a suo nome, teme il possibile emergere d’una figura oggi impronosticabile e in grado di contentare gli scontenti. Tertium datur? Tra mah e boh potrebbe starci un toh. Un Asimbonanga, come canta Leo Gassman, rivelazione di Sanremo cui piace la lingua zulu: uno “non ancora visto”. Lavora da tempo a modellarne l’identità il mondo cattolico che, rammenta Andrea Riccardi sul Corriere della Sera, è la più vasta realtà aggregativa e non deve restare chiuso nei suoi circuiti silenziosi. Ma dar vita a una, forse prodigiosa, sfida: il ‘duello conflixere mirando’ del Vangelo di Giovanni.
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