Della generazione dei giornalisti di mezzo, cioè tra quelli che combatterono nella seconda mondiale e poi nella Resistenza e quelli – come chi scrive – ascrivibili ai cosiddetti “baby boomer”, cresciuti negli anni del boom e della trasformazione italica ma ormai anch’essi prossimi alla pensione o già a riposo, Giampaolo Pansa, scomparso tre settimane fa, è stato certamente uno dei più importanti, un maestro, un punto di riferimento.
Pochi, come Pansa, hanno potuto vantare un curriculum che l’ha visto attraversare – sempre come inviato di punta – i principali “quotidiani cartacei” della nazione: dalla Stampa di Torino, al Giorno, di Milano, quindi ancora alla Stampa, al Messaggero di Roma e al Corriere della Sera, diretto da Piero Ottone. Poi a concludere al gruppo Repubblica-Espresso di Eugenio Scalfari, dove crebbe come cronista e inviato raccontando – con la sagacia e l’acume di pochi – fasti e nefasti della prima e della seconda Repubblica.
Giampaolo Pansa, vissuto per la gran parte della propria vita nelle “metropoli” del giornalismo italiano (Torino, Milano, Roma) era però un “provinciale”. Era nato infatti nel 1935 a Casale Monferrato – cittadina raggiungibile da… Varese anche in meno di un’ora di auto –, dove s’era allenato, scrivendo su periodici locali. Un “provinciale” piemontese, come Giorgio Bocca, di Cuneo, suo maestro e avversario, con il quale – negli ultimi anni della vita – visse un pesante conflitto ideologico e professionale.
Pansa, ancora oggi, passa per essere stato il facitore di detti e di “accezioni” che caratterizzarono la vita politica della “Italia da bere”, la famosa Balena Bianca, parlando del “partitone” della Democrazia cristiana o anche il raccoglitore di confessioni che hanno fatto la storia: come quando il segretario del Pci Enrico Berlinguer disse a lui, in un’intervista, di sentirsi più tranquillo sotto l’“ombrello” della Nato che tra i vassalli del patto di Varsavia…
Ma c’è un altro Pansa quello che ancora oggi fa discutere a soli pochi giorni dalla morte. È il Pansa delle “storie” della Resistenza, delle lotte partigiane “tra Genova e il Po”, com’era intitolata la sua ponderosa tesi di laurea (mille pagine), premiata e lodata da Alessandro Galante Garrone, che l’aveva portato a essere assunto – nei primissimi anni Sessanta – alla Stampa di Torino diretta da Giulio De Benedetti.
Narrazioni – ma in realtà si tratta sempre di fatti veri, documentati, anche se non considerati politicamente corretti (da qui, si diceva, anche del conflitto con Giorgio Bocca, comandante partigiano di una divisione di Giustizia e Libertà) – che lo videro al centro di polemiche feroci, quasi sempre eccessive.
Il libro dello scandalo fu “Il sangue dei vinti”, che Sperling & Kupfer, pubblicò diciassette anni fa. (Seguirono poi in questa saga “Sconosciuto 1945”, “La Grande bugia”, “I gendarmi della memoria”…). Pansa, dunque raccontava di misfatti dei quali i partigiani si erano resi responsabili, durante la guerra civile, specie nel famigerato Triangolo rosso emiliano, e altrove, ma che non erano nemmeno ignoti, anche perché numerose erano state le pubblicazioni, spesso scritte da giornalisti di destra, e considerate quasi una sorta di “stampa clandestina” a fronte di un silenzio comunista e della sinistra. Giampaolo Pansa diede voce e concretezza a queste “storie”, gli diede voce da sinistra, perché tale – un giornalista con simpatie di sinistra – era stato sempre fino a allora considerato.
Le polemiche – riesumate anche in questi giorni da personaggi non sempre all’altezza, per quanto ci riguarda, della serietà e della preparazione di un Pansa – avevano trovato ragione di esistere, specialmente in quelle località dove i misfatti raccontati e citati erano avvenuti. Giampaolo Pansa, durante la sua esistenza, alla presentazione dei suoi libri, invitò sempre storici o presunti tali a contestarlo, carte e documenti e testimonianze – laddove possibili – alla mano. Non si fece mai vivo nessuno, ed è cosa singolare e anche vile, quando Pansa non può più difendersi, che certe voci soffuse si siano rialzate in queste settimane.
Giampaolo Pansa, nei suoi libri, e chi li ha letti lo sa bene, non ha mai demonizzato la Resistenza, che ha sempre considerato uno dei momenti più alti della riscossa di questo disastrato Paese. Ha cercato, invece, di fare luce su alcune sue ombre: vendette, casi spietati di giustizia sommaria, tipici in verità di ogni guerra civile in corso. Ha scritto di lotte in essere non solo tra partigiani e repubblichini, ma tra partigiani stessi. Ha detto che in molti casi ai partigiani di matrice politica comunista poco interessava di un riscatto dell’Italia ma molto di più di un coinvolgimento nell’ambito di un internazionalismo rosso e di matrice sovietica. Senza dire, poi, di quella mancata “pacificazione” che tutt’oggi rappresenta un vulnus nella storia del nostro Paese, che – se realizzata – avrebbe potuto meglio indirizzare le nostre sorti anche politiche.
Se proprio si vuole muovergli qualche critica, va detto che molte delle indagini di Giampaolo Pansa si sono rivelate ripetitive e che – a un certo punto – sopravvenne anche un narcisistico compiacimento, ammantato di buoni sentimenti e talora di espedienti romanzeschi. Sono state queste, forse, le caratteristiche che maggiormente hanno indispettito i detrattori.
Ma i milioni di copie di libri venduti (si pensi soprattutto al Sangue dei vinti, benché il giornalista non avesse affatto necessità di “riscontri” economici) dovrebbero dirla lunga sull’attesa dei lettori, e anche sulla serietà dell’indagine storica stessa.
Giampaolo Pansa, in buona sostanza, ha fatto il cronista e lo storico, documentandosi sempre e fino al più insignificante dei particolari. Sì, è stato un “revisionista”. La storia, quando la si racconta, è sempre una revisione della precedente. Ma la si deve giustificare con “nuove” prove e documenti. Paiono impossibili approcci, atteggiamenti diversi se, davvero, si vuole percorrere la strada della verità e non quella della retorica o, più gravemente, della bugia.
You must be logged in to post a comment Login