Da una parte del tavolo c’è un caro amico in difficoltà. Intelligente, sensibile, ferito da una infanzia disturbata, parla ininterrottamente davanti a un caffè. Le sue parole per più di un’ora passano da fissazioni religiose a incontri con persone accaduti per strada. Ricordi del passato, improperi sul presente. C’è di mezzo ovviamente anche una donna. A volte ride, a volte piange. Sensazioni, esperienze, frustrazioni. Un rito che celebriamo più o meno ogni venti giorni: è stata una delle prime persone che mi ha accolto nell’81 a Roma.
Dall’altra parte ci sono io. In pensione da pochi mesi, muovo i primi passi in una nuova rarefatta atmosfera. Senza più orari rigidi, badge da strisciare, autorità cui rendere conto.
“Sono le sette. Segnale orario Rai in collaborazione con… ” Per vent’anni la messa in onda dei Giornali radio ha condizionato la testa. Tutta l’organizzazione del lavoro, a partire dalle 5 del mattino ruotava intorno a ‘clock’ precisi. Servizi, titoli, agenzie, scalette, sigle prendevano via via velocità verso l’uscita dell’unico tunnel orario.
La gabbia temporale era rigida. I ritardi non contemplati. Ogni radiosveglia pretendeva all’ora o alla mezz’ora il suo Gr. A volte sogno ancora di arrivare di corsa davanti al microfono di Saxa Rubra senza nessun brogliaccio in mano.
Anche quando sono stato ‘inviato’, la forma mentis non è cambiata. Catapultato in un luogo che poteva essere in Italia come all’estero, il tempo era il nemico. Bisognava capire cosa accadesse, raccontarlo, cercare le fonti, verificarle, registrarle ma tutto entro un preciso orario: la messa in onda di un Giornale radio.
Ora, guardando l’amico dall’altra parte del tavolo, penso al tanto tempo che ho a disposizione: l’unico contributo che posso dargli è donargliene un po’. Ascoltarlo (quanto è difficile certe volte non parlare!), allargare uno spazio dove l’altro possa esprimersi.
Un film di fantascienza di qualche anno fa, ‘In Time’, ipotizzava un mondo dove la moneta di scambio fosse il tempo: giorni, ore, minuti erano lo strumento con cui comprare quello che serviva alla vita. Distopico e allucinante, curiosamente anche lì c’erano capitalisti e proletari divisi dal possesso di tempo.
Quale il valore dei 365 giorni, 8760 ore, 52.5600 minuti di ogni anno? Le scuole, gli uffici, le banche aprono a ore certe (magari a Roma non sempre) e giustamente l’organizzazione lavorativa ne fa la misura stessa del suo essere. Ma fuori di essa che esperienza facciamo dello svolgersi del tempo? Che contenuto diamo quando siamo liberi, come nel breve periodo delle ferie estive?
Già Sant’Agostino ammoniva a non guardare al passato (che non c’è più) o al futuro (che deve ancora arrivare) per concentrarsi sul presente: il momento del rapporto con la realtà illuminato da Dio.
Dare spazio alle persone care, parlare per strada con uno che chiede aiuto, entrare nella giornata con la mente e il cuore aperti all’imprevisto, lasciare dilatare la misura della coscienza davanti a una Presenza. Mi sembrano questi i doni più belli di una nuova fase della vita: il tempo del tempo.
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