Questa rivisitazione politica del paradosso dell’uovo e la gallina (a proposito, secondo i biologi è nato prima l’uovo) ha una risposta non meno banale dell’antico dilemma da pollaio. In un incontro con le Sardine a Torino, Gustavo Zagrebelsky ha avuto modo di riflettere sul leader della Lega, prendendo spunto dalla citofonata più discussa del momento. “Salvini non ci sarebbe se non ci fossero i salviniani”; così il noto costituzionalista ha risolto l’aporia.
Zagrebelsky non è certo il primo a suggerire che il modo migliore per affrontare la deriva destrorsa sia lavorare sui salviniani, più che su Salvini. L’ex ministro della Repubblica che va a stanare un privato cittadino, ripreso dalle telecamere, accusandolo di essere uno spacciatore, è solo un prodotto della cultura condivisa dai suoi elettori, secondo il professore. Se non ci fosse Salvini, insomma, ce ne sarebbe un altro.
Tuttavia, a Salvini bisogna riconoscere dei meriti: non si è ritrovato a sfiorare il 40% per pura coincidenza, come se la folla di salviniani da decenni stesse solo aspettando lui. Salvini ha assunto il ruolo dello sdoganatore: ha utilizzato un linguaggio e delle immagini che nessuno (o quasi) prima di lui aveva rievocato. Si è rivolto a chi proviene dai ceti più bassi, a chi è stato più colpito dalla crisi, a chi è disorientato da una globalizzazione sfrenata; ha dato risposte semplici a chi si sentiva lasciato indietro.
Zagrebelsky non ha torto: chi se la prende con Salvini dovrebbe dedicare un pensiero anche a chi lo vota; anche perché, per ciò che abbiamo finora veduto, attaccare il leader leghista dopo le sue marachelle non ripaga in termini di consenso. Tra l’altro, l’ultima prodezza di Matteo (quella del citofono) sembra averlo leggermente penalizzato nei sondaggi; ma chi sta rosicchiando i suoi punti percentuali è più che altro Fratelli d’Italia, con la leader Giorgia Meloni che si distingue dal collega per la moderazione dei toni (per esempio, ha preso le distanze dall’infausta citofonata), ma non si distacca nei contenuti.
Il concetto può sembrare ripetitivo, ma è importante ribadirlo dopo il voto regionale in Emilia-Romagna. Il centrosinistra, si sa, ha collezionato un’importante vittoria. Ma leggendo i dati forniti da SWG, notiamo che fra gli elettori dei ceti più bassi il 39% ha scelto la Lega, e un altro 20% ha votato Fratelli d’Italia. Solo l’11% ha barrato il simbolo del PD, il 3% quello della lista di Bonaccini.
A questo punto dovrebbe suonare qualche campanello d’allarme. Il centrosinistra, in Emilia-Romagna, ha vinto grazie ai voti di chi sta meglio economicamente; lo stesso equilibrio che negli ultimi anni ha regolato le elezioni politiche, secondo un modello capovolto della prima repubblica, nel quale i poveri votano destra e i ricchi votano sinistra.
Essere al vertice di un partito di sinistra in questo momento storico è tutt’altro che semplice, bisogna riconoscerlo. Non è facile coniugare le istanze dei ceti più svantaggiati con complessi fenomeni globali quali l’immigrazione e l’ambientalismo. Forse il prezzo da pagare per avere una politica di tolleranza sull’immigrazione e un’economia più green è proprio la rinuncia al consenso di coloro per i quali, comprensibilmente, accoglienza ed ecologia non sono in cima alla lista delle priorità. Ma un partito di sinistra non può permettersi di lasciare indietro coloro per i quali la sinistra è nata. Non può ignorare il salviniano.
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