Che Conte s’adoperi sul serio nel cucire una ‘rete dei cattolici’ così da superare la soglia del ‘fronte progressista’ caro alla sinistra, è testimoniato dal nervosismo affiorante a destra. Ne è fresca prova il convegno “Dio, onore, nazione: il presidente Ronald Reagan, papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni”. Un tentativo, non solo culturale, d’annettere al sovranismo la figura di Wojtyla, contrapponendolo a Bergoglio, cui c’è chi non esita ad appaiare il termine ‘marxista’. Semplice lo schema: glorificare l’uno per disincensare l’altro, con ciò interpretando un filone d’insofferenza verso l’attuale pontefice autenticamente esistente nella curia romana e nelle parrocchie del Paese.
La memoria non ha tuttavia soccorso gl’incauti promotori. Ciò che Francesco, tempo fa, dichiarò sul volo di ritorno dal Madagascar sarebbe bastato a suggerire maggior accortezza. “Le cose sociali che dico -spiegò- sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II. Io copio da lui”. Non l’unico segno di continuità tra i due. Il loro legame troverà pubblicizzazione in un libro-intervista di prossima uscita, dal titolo “San Giovanni Paolo Magno”. Domande di Luigi Maria Epicoco, risposte del capo della Chiesa. Emergeranno non le differenze, bensì le affinità tra l’ex arcivescovo di Buenos Aires e l’ex arcivescovo di Cracovia.
Torniamo a Conte. Che c’entra il premier in questa chiacchiera? C’entra perché Conte sta lavorando a rimuovere steccati di fede che possono nuocere al suo recinto di governo. Presente e futuro. Nel meeting “Essere mediterranei. Fratelli e cittadini del Mare Nostro” organizzato dalla rivista Civiltà cattolica, il presidente del Consiglio -che aveva al fianco il segretario di Stato monsignor Pietro Parolin- ha riaffermato la strategia trasversale del suo disegno. Riformare includendo, riunire il maggior numero possibile di sensibilità, creare un’area innovatrice senza marchiarla d’anticonservatorismo. Il conservatorismo buono, quello dei valori tradizionali -cioè cristiani, cioè cattolici, cioè postdemocristiani- è da accogliere, non da scacciare.
O per caso o non per caso, Conte va emergendo come il più accreditato epigono del partito di massa che transitò il paese dalla ricostruzione post bellica sino all’era del bipolarismo destra-sinistra ovvero all’incipit della Berlusconeide. A ogni possibile occasione, l’inquilino di Palazzo Chigi rammenta che i suoi maestri si chiamano De Gasperi e Moro, che Prodi merita un ammirato elogio, che il metodo del dialogo è l’arma insostituibile d’un governante. Non aut aut, e invece et et. Perlomeno fin dove l’et et risulta praticabile. La sfida con Salvini/Meloni si può vincere solo così, e chissà che anche il Cavaliere se ne lasci persuadere, associandosi all’avventura. Conte ha imparato, oltre che una pragmatica strategia di relazioni, un tonachesco spirito comportamentale durante gli anni in cui fu allievo del collegio romano diretto (vedi la bizzarria del caso) proprio dal citato cardinale Parolin. L’istituto si chiama Villa Nazareth, un nome che domani potrebbe esser dato a una nuova e sorprendente intesa, in sostituzione di quella stretta da Berlusconi con Renzi e poi naufragata: dal Patto del Nazareno al Patto di Nazareth. Perché no, absit iniuria verbis?
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