Tutto era iniziato dai quadri, perché era più facile iniziare da lì. Quello dipinto da Federico Gariboldi piaceva al figlio maggiore e a lui è andato. I piatti di Ceramica Lodi e una natura morta erano stati scelti dal figlio minore. Così anche il Sant’Antonio con Bambino, un quadro del Quattrocento di un pittore di scarso talento, era stato assegnato senza discussioni.
La mamma era morta da più di un anno. E quella casa prima o poi andava vuotata. Si erano create mille scuse, per rimandare quella decisione. “Non c’è urgenza”, si diceva. “Dobbiamo vedere dove mettere le cose.” E via dicendo. In realtà i figli sapevano bene che vuotare quella casa voleva dire altro.
Le case nascono per essere riempite. E vuotarle sembrava un atto ingiusto, innaturale. Per questo, forse, i lavori di raccolta si svolgevano tutti in silenzio, di sera. Nei cartoni, in ordine con l’imballo a bolle d’aria, erano stati sistemati i piatti di porcellana, quelli di Praga, un regalo di nozze all’inizio della guerra. Poi è stato il turno di quelle che chiamavano “le cineserie”: i servizi da thè arrivati dai missionari salesiani. E poi Madonne cinesi dai colori allegri, tovaglie, vasi per i fiori, vassoi, due mendicanti in legno che si diceva portassero fortuna. Poi i vestiti, tanti, davvero tanti. E avanti così, cartone dopo cartone, sempre in silenzio. Sul fianco veniva scritto il contenuto. E un altro pezzo era fatto.
Il lavoro era stato lento: ogni oggetto veniva guardato e quel guardarlo nascondeva un sottile ripiegamento, come un disagio.
Poi la sala, anzi “il tinello” come lo si era sempre chiamato. Tutto completo, compresi divano e poltrone, compresa anche la sedia a dondolo degli ultimi anni, il tinello era stato caricato su un camioncino bianco arrivato da Sesto, destinato a una famiglia di russi o di ucraini o di chissà quale altro paese, su segnalazione di qualcuno.
La mamma era morta a novembre. Era passata l’estate e poi ancora. Il frigorifero, che era ancora buono, era stato ritirato dalla parrocchia. Così pure la lavastoviglie e qualche altro oggetto. Le tovaglie no, quelle potevano essere portate via dai figli, “in fondo una tovaglia in più va sempre bene” si era detto. I piatti e le posate e i bicchieri, quelli erano proprio vecchi ed erano stati consegnati in discarica, sopra l’Ipermercato. I figli li avevano depositati nel cassone uno ad uno, lentamente, prima i piatti piani, poi i piatti fondi, i piatti da dolce e le scodelle che erano di un altro colore. Nessuno aveva mai notato che erano di un altro colore.
E così locale dopo locale, per settimane. Quella casa che era stata costruita per i figli, messa in piedi pezzo dopo pezzo per i figli, con mille oggetti comprati pensando che poi avrebbero potuto trovare posto nelle nuove case dei figli, ora finiva tutta in cartoni con una scritta davanti, con un destino solo all’apparenza incerto. Solo qualche dettaglio si sarebbe salvato, solo qualche dettaglio.
Locale dopo locale, fino alla camera. Restavano i cassetti della camera: era l’ultimo atto. Il letto era già stato smontato. Pesava come nessuno avrebbe mai pensato potesse pesare un letto. La spalliera in noce (“L’avevamo presa a Cantù”, diceva sempre la mamma) nello smontarla era stata un po’ rovinata. Peccato, si era detto, peccato che si è rovinata. Ed era finita sull’autocarro di una di quelle persone che vuotano le cantine e che hanno sempre un’aria strana o furba.
La mamma conservava tante cose, perché tutto aveva un senso o poteva venir buono. Nell’ultimo cassetto, in una scatola i diplomi del figlio maggiore.Del figlio minore un’altra scatola raccoglieva i diplomi dei concorsi di fisarmonica. E poi delle immaginette della prima comunione o della cresima, con altri Santi e Madonne. E poi scialli che raccontavano ore di lavoro, troppo belli per essere indossati, troppo delicati.
Nel secondo cassetto oggetti mai visti, piccoli, inutili, e vestaglie mai indossate. Di fianco, un mazzo di cartoline. Saranno state un centinaio. Venivano da Parigi, dalla Jugoslavia, da Rimini, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Spagna, decine e decine. Raccontavano anni e anni di vacanze dei figli. Poi foto di nipoti, tutti allegri. E accanto altri scialli e “capolavori” di maglieria. E poi una infinità di calze, tante, davvero tante.
Il primo cassetto era quasi vuoto dopo che erano entrati i ladri che avevano portato via tutto. Avevano rubato “i gioielli, che erano bellissimi”, diceva la madre. E altre cose di famiglia, enumerate con enfasi, esagerandone il valore.
Ecco, le case nascono per essere riempite, dicevamo. E in quel riempirle si gioca tutta la vita. Ma ogni figlio, prima o poi, dovrà fare i conti con una casa da svuotare. E anche con questo vuoto si dovranno fare i conti.
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