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Tre sono gli immaginifici luoghi narrativi della poetica di Fellini del quale quest’anno ricorre il centenario dalla data di nascita: il Circo, la Capitale e Rimini.
Molto è stato scritto, detto, narrato, girato e proiettato su Fellini. Il Circo fa irruzione dappertutto nel suo cinema: scene circensi e di avanspettacolo compaiono pure ne “La dolce Vita”. Ma prima ancora, nella figura e nel volto di stralunato Pierrot di Giulietta Masina, sia nella “Strada” dove Gelsomina e Zampanò, creano una sorta di circo itinerante, sia nelle “Notti di Cabiria”, altro film ricco di elementi magici. Ma è un clown pure Alberto Sordi nei “Vitelloni” (1953) nella mattinata livida in cui il veglione di Carnevale si scioglie e Alberto resta solo col trucco disfatto inseguito dal suono dell’immancabile tromba, con un relitto di cartapesta (la testa di un’allegoria carnevalesca) che si trascina dietro per la piazza.
Poi a riconferma dell’universo circense felliniano, “I clown” e – perché no? – perfino in quella marcetta dei gladiatori di Nino Rota che anima “8 ½”, il Maestro lascia intendere che in fondo, tutto quanto è un po’ circo, incluso lo stesso cinema con la sua troupe.
La Capitale nei suoi fasti, nei suoi riti, nei suoi vizi, nel cinismo dei suoi abitanti e turisti, la incontriamo nella “Dolce vita” film nel quale in fondo è lei, Roma, la vera protagonista; così pure nel più esplicito film dal semplice titolo di “Roma”. Ma anche nel suo “Satyricon” dove Fellini dà vita a un’antica Capitale imperiale della decadenza, del tutto immaginaria. Vengo a Rimini, luogo natio, luogo della memoria e delle sue radici e con queste note intendo riferirmi ai suoi due film più specificamente “riminesi” (“I vitelloni” e “Amarcord”). Li chiamo “riminesi” a scopo puramente indicativo, dato che in realtà il regista non ha mai girato un centimetro di pellicola nella sua città natale, pur potendolo fare. Ricostruire negli studios o in altri contesti la sua Rimini così come gliela suggeriva la memoria, era per lui un modo per renderla vivida e presente come in un sogno dal quale non ci si vorrebbe mai svegliare. Un tempo che può essere riafferrato solo grazie alla magia del cinema che ce l’ha consegnata così come lui l’ha immaginata, vagheggiata e sognata. È un suo “come eravamo” finalizzato alla comprensione del presente, costantemente in bilico sul filo di una memoria che si fa, a distanza di anni, storia di un tempo apparentemente remoto con cui ci si deve confrontare.
Riccardo il giocatore cantante lirico, Fausto il donnaiolo, Leopoldo l’intellettuale, Alberto l’eterno bambinone, Moraldo il giudizioso, erano nei “Vitelloni” (titolo voluto da Flaiano con cui Fellini ebbe una fruttuosa collaborazione) cinque amici che si ritrovano in una Rimini ricostruita tra Roma, Viterbo e Ostia. I lunghi pontili sul mare nei quali i cinque perdigiorno lasciano penzolare giù le gambe in modo sfaccendato, i litorali sabbiosi con gli stabilimenti balneari in disarmo invernale, il freddo vento di tramontana dell’Adriatico, i caffè all’aperto nei quali gli amici sfaccendati trascorrono il loro tempo ozioso, appartengono in realtà ad un litorale laziale “romagnolizzato”.
Il borgo con la piazza, la fontana e la piccola stazione, non sono riconducibili a Rimini bensì a Viterbo, località che non si affaccia sul mare. Come raccontò il regista “A Ostia ho girato i Vitelloni perché è una Rimini inventata: è più Rimini della vera Rimini”. Secondo l’estetica felliniana, la realtà sta proprio nella costruzione (e ricostruzione) del sogno. E proprio come avvenne nella vera Rimini, un bel mattino Moraldo (Franco Interlenghi), alter ego dello stesso Fellini, il più introverso e taciturno dei cinque amici, prende un treno per Roma e lascia la combriccola di pelandroni, non prima di averli immaginati poltrire fino a tardi nei loro letti per affrontare un’altra giornata senza veri scopi da raggiungere. Mentre lui, va in cerca di un futuro, coi suoi sogni da realizzare per davvero, staccandosi dal suo piccolo centro di provincia divenuto troppo materno e soffocante. Qui in stazione viene salutato affettuosamente al treno dal suo piccolo amico Guido, il quale a differenza, dei “vitelloni” scansafatiche, già lavorava in ferrovia poco più che fanciullo.
Non si sottolineerà mai abbastanza come Fellini abbia influenzato schiere di cineasti italiani e stranieri. Analoga scena la ritroviamo anni dopo in “American Graffiti” di Lucas, dove uno dei giovani amici della combriccola se ne va in cerca di fortuna, e in “Nuovo Cinema Paradiso” di Tornatore. “Amarcord” (film del 1973) può essere considerato in un certo senso un “seguito” dei “Vitelloni” vent’anni dopo, ma anche di “Roma” o dei “Clown”, specie nell’indicazione in certi personaggi del borgo riminese degli anni Trenta.
Un’ulteriore linea nostalgica di “passato” la troviamo nelle musiche del maestro Nino Rota, con il quale Fellini ebbe un rapporto addirittura simbiotico già a partire dal suo primo film “Lo sceicco bianco”, in poi: musiche evocative, lievi, insinuanti, come i ricordi che accompagnano la nostra vita. Marcette e sarabande allegre che animano sagre e riti di paese come il falò della “fogherazza”, che è anche la Vecchia fatta di pezze, stracci e paglia da ardere in piazza per propiziare la primavera. A cominciare dal borgo ideato e eretto a Cinecittà a cura di Danilo Donati che ingloba molti elementi riminesi.
Fellini ha scritto il copione a quattro mani con il poeta Tonino Guerra, nato a Sant’Arcangelo di Romagna distante pochi chilometri da Rimini, intrecciando quindi le loro memorie comuni. La città di “Amarcord”, completamente ricostruita a Cinecittà, è una città che fa parte di una dimensione onirica, un racconto fatto di ricordi che vanno dal Grand Hotel al cinema Fulgor, da piazza Cavour al porto fino a Borgo San Giuliano. La vicenda, ambientata all’inizio della primavera del 1933 si dipana in un anno (da primavera a primavera) nella Rimini reinventata. Narra la vita nell’antico borgo e dei suoi caratteristici abitanti: le feste paesane, le adunate del “sabato fascista”, la scuola e i professori del liceo “Giulio Cesare”, i signori di città, i negozianti, il suonatore cieco, la donna procace e un po’ attempata alla ricerca di un marito, il venditore ambulante, il matto, l’avvocato, quella che va con tutti, la tabaccaia dagli enormi seni, i fascisti, gli antifascisti e il magico conte di Lovignano. Ma soprattutto i giovani del paese, adolescenti preda di una prepotente “tempesta ormonale”. Tra questi, risalta il personaggio di Titta Biondi (pseudonimo per Luigi “Titta” Benzi, amico d’infanzia di Fellini) e tutta la sua famiglia: il padre, la madre, il nonno, il fratello e gli zii, di cui uno matto chiuso in un manicomio. Titta Benzi, noto avvocato del foro di Rimini, è mancato qualche anno fa, ultranovantenne.
Ora la città di Rimini (quella odierna) celebra, in occasione del Centenario del suo più famoso figlio, tributi, eventi con rassegne cinematografiche, ricordi, testimonianze, libri, documentari. Basta cercare sul web, per prenderne visione. Inoltre, chi dovesse recarsi da quelle parti, non può ignorare il mitico Grand Hotel di Rimini, luogo dell’immaginario felliniano per eccellenza.
Inaugurato nel 1908, divenne famoso nel mondo soprattutto grazie alle indimenticabili sequenze di “Amarcord” in cui Fellini ne esaltava il fascino e le atmosfere da Mille e Una notte. Diventato protagonista indiscusso della Riviera romagnola ed eletto a monumento nazionale nel 1994, il Grand Hotel sorge nel Parco Federico Fellini, un’area verde di pini e lecci in cui si trova la nota Fontana dei Quattro Cavalli. L’elegante facciata Liberty dell’hotel che si erge imponente a due passi dal mare con le storie e le leggende degli ospiti illustri che soggiornarono qui, alimentarono i sogni di un Fellini ragazzo, il quale era solito sbirciare dal cancello dell’albergo la vita lussuosa che vi si conduceva all’interno.
Come raccontato da Fellini stesso “il Grand Hotel era la favola della ricchezza, del lusso, dello sfarzo orientale. (…) Gli giravamo attorno come topi per darci un’occhiata dentro; ma era impossibile”. Nel film ha quindi deciso di rendere immortale l’atmosfera fantastica di questo luogo che tanto lo aveva affascinato, dove lui stesso amava soggiornare quando ormai celebre, tornava in Riviera.
Gironzolando per Rimini si scoprirà che ben ventisei vie laterali che collegano il lungomare dei Tintori, ora portano i nomi dei film di Fellini (Via Giulietta degli Spiriti, Via Dolce vita, Via Sceicco bianco, ecc.). Superata Piazza Cavour, proseguendo in Corso d’Augusto, troviamo uno dei luoghi più felliniani di tutta Rimini: il leggendario Cinema Fulgor con la sua inconfondibile insegna in stile Liberty. È il locale dove da piccolo, seduto sulle ginocchia del padre, vide il suo primo film “Maciste all’inferno”. Durante gli anni delle scuole elementari il Fulgor diventa la sua “seconda casa”. Qui si diverte con gli amici e qui, come il giovane Titta con Gradisca in una delle scene più celebri di “Amarcord”, tenta un approccio con le ragazze.
Nato nel 1914, il cinema Fulgor è stato riconsegnato a Rimini e ai suoi cittadini nel 2018, completamente restaurato dopo cinque anni di lavoro. Rinasce così in uno “stile “hollywoodiano–romagnolo”, come lo ha definito Dante Ferretti, il famoso scenografo premio Oscar che ne ha curato gli interni, caratterizzati da colori caldi, con volute di legno incurvato, listoni di ottone lungo le pareti e una sinuosa e bellissima scala che porta in galleria. Il Fulgor con le sue due sale (Sala Federico e Sala Giulietta) è stato ridisegnato da Ferretti in stile anni ’30 e ’40 con l’intenzione di ricreare le atmosfere dei vecchi cinema americani. La Sala Federico, pur mantenendo i volumi della sala storica, è lontana dal design minimale di quel “cinemino” di provincia fatto di modeste panche di legno raccontato da Fellini nei suoi film. Con stucchi, sfarzosi arabeschi dalla combinazione di rosso e oro si è voluto rendere un tributo permanente al grande cinema italiano di cui Federico Fellini resta il prodigioso artefice.
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