“Sorry we missed you” è l’ultimo film del cineasta inglese Ken Loach, che rimane fedele al suo passato di impegno e denuncia sociale, raccontando con una macchina da presa quasi neorealista la lotta della classe lavoratrice odierna in Inghilterra.
Il film è ambientato in una città qualunque, Newcastle. I protagonisti sono i due coniugi, Ricky e Abby, di una famiglia qualunque, che si ama e si vuole prendere cura dei propri due figli, l’adolescente Seb e la piccola Lily. I genitori desiderano dedicarsi a loro, eppure non riescono per le precarie condizioni in cui versano: la crisi economica del 2008 ha fatto perdere l’impiego a Ricky e la casa appena acquistata. Per cercare di riconquistare la situazione originaria di benessere, il padre accetta di collaborare con un’azienda di spedizioni, che non lo assume come dipendente ma lo illude con la prospettiva di diventare un giorno un lavoratore autonomo. Nonostante la moglie Abby intuisca che dietro la promessa di indipendenza si nasconde in realtà solo l’assenza di tutele, acconsente a vendere la sua macchina, indispensabile per il suo lavoro di assistente sociale, pur di riuscire a recuperare la stabilità economica grazie agli infiniti turni di 14 ore che il marito è disposto a sopportare.
All’inizio Ricky sembra fare una buona impressione a Maloney, il gestore del deposito di consegna, che gli vende l’idea di essere “padrone del proprio destino” e lo fa sperare che il sacrificio di tanto tempo sottratto alla famiglia per un’occupazione così logorante valga la pena. Subito dopo, però, il film precipita e trascina con sé i personaggi in una catena di tragedie. All’interno della sfera privata, infatti, iniziano a penetrare le difficoltà crescenti del mondo esterno, come la mancanza di solidarietà tra colleghi, i ritmi del lavoro inconciliabili con quelli di una vita normale, Seb che salta la scuola per disegnare graffiti. Le conseguenti preoccupazioni di Ricky e Abby si ripercuotono quindi sui figli, distruggendo persino l’unità familiare, qui rappresentata da Loach come unica àncora in un mondo visto negativamente, come nemico dell’uomo: questo è, ad esempio, il motivo per cui lo scanner che traccia ogni movimento dei corrieri, è anche chiamato “pistola”, come se fosse un vero e proprio strumento di minaccia.
L’assenza dei genitori, dovuta ai massacranti turni a cui sono sottoposti, costringe Lily, ancora bambina, a mandarli a letto quando si addormentano davanti alla TV e ad assumersi la responsabilità di portare a scuola il fratello, che ha seri problemi disciplinari tra tentati furti e risse. Questo provoca un attrito esplosivo tra l’adolescente e il padre, a cui manca la capacità di affrontare il cinismo del figlio circa le ridotte opportunità che scorge nel suo futuro, anche a causa del calvario lavorativo di Ricky. È necessario però chiedersi se, in questo passaggio, la rappresentazione di Seb come giovane irredimibile, che vede il mondo solo attraverso il suo smartphone, non risulti eccessiva e se gli eventi debbano essere, a tratti, gratuitamente tragici perché il film riesca a consegnare il suo messaggio ultimo.
Nonostante questo, in altre sequenze la pellicola ha la capacità di evidenziare il contrasto tra la logica del sistema, governato da macchine, scadenze e da una tecnologia che, lungi dal facilitare la vita, la rende un inferno e l’umanità di ogni individuo che, soffocata dall’indifferenza della realtà esterna, lotta per tornare a galla. Una delle poche scene in cui il sentimento riesce ad emergere è quella del discorso d’incoraggiamento del poliziotto, che consiglia a Seb, sorpreso a rubare, di prendere il suo avvertimento come una motivazione per modificare la sua traiettoria esistenziale e apprezzare il sostegno dei genitori. Un’altra è il momento culminante del dramma di tutto il film, quello in cui Abby, mentre Ricky è in ospedale, riversa la sua disperazione contro Maloney, simbolo del cinismo votato al guadagno e freddamente noncurante della vita del singolo.
Inoltre, bisogna considerare un altro elemento che aumenta la pressione sociale sugli individui: le aspettative irrealistiche che nutrono per sé e la propria famiglia. In “Sorry we missed you” si vede una grande impresa che adesca gli incauti e più bisognosi con vuote promesse di una possibilità di avere una indipendenza economica. Nel frattempo, però, le ambizioni di Ricky e Abby sono plasmate da paradigmi borghesi ormai fuori portata: desiderare una casa di proprietà è solo un inganno, che rende le sconfitte ogni giorno più insopportabili. In definitiva, ciò che si chiede veramente il regista è se le aspirazioni a una vita migliore possano essere sostenute contro una realtà in cui la fatica incessante rimane l’unica opzione disponibile per i meno abbienti.
Il film si chiude con una situazione paradossale in cui la famiglia, che ha disperato bisogno di soldi e lavoro, vuole impedire al padre di andare a lavorare, visto il grave stato di salute in cui si trova. È una conclusione che lascia lo spettatore senza punti di riferimento, cioè nella stessa condizione dei protagonisti, che non sanno più qual è la direzione giusta per uscire da questa spirale tragica e soprattutto se effettivamente una via d’uscita esiste.
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