La classe IV, sezione B, del Ginnasio-Liceo «Parini» di Milano nell’anno scolastico 1938-1939 era composta da 32 studenti. Uno di questi era Guido Lopez, figlio di Sabatino Lopez, celebre drammaturgo del primo Novecento, e destinato a diventare anch’egli un professionista della penna. Molti anni dopo, nel 2002, sulle pagine del supplemento milanese del quotidiano «la Repubblica», Guido Lopez rievocò il momento in cui, all’inizio di quel lontano anno scolastico, egli fosse stato espulso da scuola insieme ad altri due dei suoi compagni di classe. Era l’inevitabile effetto delle prime norme antiebraiche introdotte in Italia. Il 13 settembre del 1938, infatti, era stato pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» il Regio Decreto Legge del 5 settembre 1938, n. 1390, contenente le disposizioni «per la difesa della razza nella scuola fascista». Fu questo il primo atto della campagna razzista voluta da Mussolini e che avrebbe prodotto gli effetti drammatici che più o meno tutti ormai conosciamo.
C’è un passaggio, nella testimonianza di Guido Lopez, che mi ha sempre colpito. Lì dove racconta che anni dopo, a guerra finita, avesse interpellato i suoi ex compagni di classe, scoprendo che «il vuoto lasciato nei banchi», il vuoto venutosi a creare dall’improvvisa e definitiva assenza di 3 studenti su 32, fosse stato «totalmente “ignorato”» al momento del consueto appello.
Mi sono spesso e a lungo chiesto come si possa «ignorare», in una classe, il vuoto lasciato tra i banchi di scuola da tre studenti. Come possa essere possibile non interrogarsi sulla improvvisa scomparsa di tre studenti. Come non sia naturalmente insorto, tra studenti e insegnanti, il bisogno di chiedersi la ragione di quelle inaspettate assenze.
Il 31 dicembre del 1936 era stato pubblicato, sulla prima pagina del «Popolo d’Italia», un editoriale senza firma dal titolo Il troppo storpia. Il giorno dopo fu riproposto dalla «Cronaca Prealpina» di Varese come da molti altri giornali.
Lo stile dell’articolo era facilmente riconoscibile e rimandava inequivocabilmente a Benito Mussolini (il testo, infatti, fu poi accolto nel XXVIII volume della sua Opera omnia):
La gente distratta, o che finge di esserlo, si domanda come e perché si diventa antisemita, pur non avendo avuto dalla natura speciali inclinazioni in materia. La risposta è semplicissima. L’antisemitismo è inevitabile laddove il semitismo esagera con la sua esibizione, la sua invadenza e quindi la sua prepotenza. Il troppo ebreo fa nascere l’antiebreo.
Subito dopo questa singolare giustificazione dell’antisemitismo (l’Autore avrebbe ribadito in chiusura che, se non ci fossero stati gli ebrei, l’antisemitismo non sarebbe esistito), il lettore veniva a sapere che in Francia, con il governo guidato dall’«ebreo» Léon Blum, «una cellula ebraica» si era ormai messa alla guida del paese. A dimostrazione di ciò, seguiva un lungo elenco di ebrei che rivestivano ruoli e funzioni importanti in tutti i settori della società francese. Quindi, con tono minaccioso, venivano tratte le seguenti conclusioni:
L’annunciatore e il giustificatore dell’antisemitismo è sempre e dovunque uno solo: l’ebreo. Quando esagera e lo fa sovente.
Nel corso di quel 1937 gli italiani ebrei dovettero scoprire di godere di una crescente attenzione da parte della stampa nazionale. Eppure, nonostante si riaffacciassero vecchi stereotipi e secolari pregiudizi, la stragrande maggioranza non riusciva ad immaginare che anche in Italia, come in Germania, le parole si sarebbero tradotte, nel giro di un anno, in azioni discriminatorie e pratiche persecutorie.
Luciana Nissim, ad esempio, ricordò molti anni dopo che l’annuncio di una legislazione “razziale”, come si disse allora, «ci arrivò addosso come un fulmine, come un terremoto catastrofico»:
Sembra tuttora incredibile che le cose siano andate così, che prima non abbiamo avuto nessuna paura, nessun sospetto… eppure leggevamo i giornali e ascoltavamo la radio, dove intanto, negli ultimi anni, erano cominciate le campagne diffamatorie e intimidatorie sempre più violente contro i «giudei», come ormai eravamo indicati… eppure avevamo ben visto arrivare nelle nostre città ebrei profughi da altri paesi, spaventati e in condizione di grande bisogno, che bisognava aiutare, certo, ma che non destavano una grande simpatia… Sembrava un destino toccato ad altri, ma da cui noi saremmo stati preservati.
Luciana Nissim, primogenita di una famiglia ebraica piccolo-borghese residente a Biella e destinata a diventare dopo la guerra una importante psicoanalista, dopo l’8 settembre del 1943 si unì con alcuni giovani amici ad un gruppo di ex militari che in Val d’Aosta stava organizzando la resistenza contro i tedeschi. Fu arrestata in dicembre insieme a Primo Levi, trasferita a Fossoli e deportata ad Auschwitz.
L’antisemitismo di Stato si manifestò in tutta la sua virulenza nella primavera del 1937. La guerra civile, che si stava consumando in Spagna, offrì alla propaganda fascista il pretesto di rispolverare la vecchia leggenda di un complotto ebraico internazionale per il dominio del mondo: la Spagna cattolica era oltraggiata e offesa dalle forze comuniste guidate dall’Unione sovietica con la complicità delle democrazie europee e americana; il contagio bolscevico era alimentato da una regia ebraica occulta, che mirava a sovvertire l’ordine mondiale e a minare la civiltà occidentale.
[…] L’internazionale ebraica […] guida le sorti della rivoluzione [bolscevica] e della sovversione di tutti i valori della civiltà in tutte le parti del mondo.
Così si legge, ad esempio, in un ampio articolo proposto dalla «Cronaca Prealpina» il 14 aprile del 1937. Ma le stesse preoccupazioni, e nello stesso periodo, il 16 marzo, venivano manifestate anche sulla prima pagina del settimanale cattolico «Luce!», che si stampava a Varese:
Si parla giustamente contro l’infame e scellerato comunismo bolscevico, ma purtroppo spesso non si fa parola dell’ebraismo policromo sovversivo, che lo à suscitato e che in vari modi vorrebbe distruggere il Cristianesimo, organizzando la rivoluzione universale.
In quella stessa primavera, nel mese di aprile, fu pubblicato a Roma, dalla casa editrice Pinciana, il volume di Paolo Orano, Gli ebrei in Italia. L’Autore era una figura di primo piano del giornalismo italiano. In apertura del suo pamphlet, lamentava che in Italia ci si occupasse poco degli ebrei, «dei loro problemi, delle teoriche e delle polemiche che nel mondo attuale li riguardano». E tuttavia non era tollerabile, in uno Stato che aveva l’aspirazione ad essere totalitario, la presenza di un gruppo, che coltivava una identità “altra” rispetto a quella fascista, italiana e cattolica. Lo stesso atteggiamento messianico, proprio della religione ebraica, mal si conciliava con la nuova stagione politica della penisola: «il messia politico a gloria e beneficio d’Italia e del mondo nuovo s’incarn[a] in Mussolini» e sarebbe stato pertanto «criminoso […] sperare, agognare un messia internazionalesco comunardo anarchico o soltanto massonico e rabbinico».
Le 221 pagine della prima edizione si chiudevano con affermazioni che, lette oggi, assumono una luce sinistra:
È il problema che deve essere abolito. L’Italia Fascista non ne vuole. Il dire di più sarebbe superfluo.
A partire da quel periodo, se sfogliassimo le pagine dei giornali, scopriremmo una attenzione sino a quel momento inedita per le questioni che riguardavano gli ebrei, la loro naturale inclinazione per il bolscevismo, la loro penetrazione sediziosa nei gangli cruciali delle società europee; il loro diffondersi come una malattia contagiosa, minante l’integrità della razza ariana.
La campagna antisemita conobbe una breve battuta d’arresto all’inizio dell’anno successivo. Ma a partire dall’estate successiva, la stampa nazionale iniziò a dare conto delle novità che, intorno al «problema ebraico», il fascismo stava per varare. Gli ebrei, del resto, erano ormai diffusamente percepiti, anche là dove fossero sconosciuti o assenti, nel modo in cui furono rappresentati, ad esempio, dal sacerdote Walter Oliva sulle pagine del «Luce!» il 2 agosto del 1938:
La stirpe di Abramo […] dove si afferma: conquista le industrie, le cattedre, le banche; entra in tutti gli organismi finanziari, economici dove esplode abbondante il lucro. Compare dove si concreta una promessa di forti guadagni, dove si apre una miniera o una polla di liquido metallo, là c’è la spugna dell’ebreo.
Questo, continuava il sacerdote, giustificava la reazione dei governi, che, in Europa come in Italia, avevano introdotto o stavano per introdurre leggi antiebraiche, perché l’ebreo «sa mirabilmente manovrare le congiure, le società segrete o massoniche, soffiare nel fuoco delle passioni politiche, e rapinare a tempo i posti di comando».
La stampa, da questo momento in poi, avrebbe avuto il compito di far maturare anche in Italia un sentimento antisemita, tale da far accettare il susseguirsi incalzante di misure persecutorie messe in atto dal settembre del 1938 e che avrebbero poi trovato una prima sistemazione nel Regio decreto legge del 17 novembre successivo.
Il Ministero della cultura popolare impartì precise direttive ai direttori di giornale per impostare e trattare la questione relativa alla nuova politica razzista del regime. Se ne trova traccia in una “velina” del mese di agosto, inoltrata alle direzioni di tutti i giornali:
[…] occorre continuare nella trattazione del problema della razza, in modo da tenerlo sempre vivo nell’interesse nazionale. Bisogna però tenere presente alcuni punti che Vi saranno di orientamento per le direttive che Voi darete ai nostri collaboratori e per l’impostazione generale dell’argomento. E cioè: il problema della razza innanzi tutto non deve essere trattato da un punto di vista esclusivamente politico, ma il lato politico va poggiato su quello biologico e su quello scientifico. In sostanza, sono gli argomenti biologici e scientifici che devono servire di base per la parte politica.
[…] Non si deve dare l’impressione che l’antisemitismo si faccia soltanto per fare dell’antisemitismo come fine a se stesso, ma dimostrare che l’antisemitismo è in funzione del miglioramento qualitativo e quantitativo della razza italiana.
L’invenzione di un nemico interno, non era una novità per l’Europa. Ne avevamo già fatto esperienza durante la Grande guerra, quando in ognuno degli Stati impegnati nel conflitto la propaganda aveva messo in atto modalità rappresentative tendenti alla disumanizzazione, alla animalizzazione dell’avversario.
La guerra contro gli ebrei era stata dichiarata unilateralmente dagli Stati fascisti. E può sembrare addirittura incomprensibile, se si tiene conto il numero irrilevante degli ebrei italiani. Secondo il censimento ebraico voluto dal fascismo e avviato nell’agosto del 1938, su una popolazione totale, che, nel 1931 risultava essere di poco superiore ai 41milioni, gli ebrei italiani, riconosciuti tali da fascismo, furono 48.032. Meno di uno su mille.
La propaganda doveva aver funzionato molto bene. L’ebreo, visibile o invisibile, reale o immaginario, era ormai da considerarsi non solo un elemento estraneo e “altro” rispetto alla nuova identità dell’italiano in camicia nera, ma rappresentava un pericolo, di cui era meglio liberarsi subito.
Vittorio Foa, uno dei padri della nostra Repubblica, all’epoca era detenuto già da tre anni nel carcere romano di Regina Coeli per attività antifascista. Dal carcere, in quella estate del 1938, cercò di confortare i propri familiari, invitandoli a non rattristarsi troppo «per l’offensiva antisemita in corso», pur rendendosi conto di come, «sul terreno logico», tutto ciò fosse assurdo, «contraddittorio, quasi ridicolo per la sua inconsistenza». Vittorio Foa si rammaricava allora perché «gli uomini bisognosi di chiarezza logica si angustieranno di non poter replicare e confutare».
Eppure, l’assurdo sembrò prevalere in quei giorni. A tal punto che nessuno sembrò preoccuparsi del vuoto lasciato tra i banchi di un’aula scolastica da tre studenti, nessuno pensò di chiedersi come mai in una classe si fosse creato quel vuoto, perché si venisse esclusi dal gruppo di compagni con i quali si era condivisa l’avventura del ginnasio e con i quali si coltivava il sogno del liceo per la sola colpa di essere nati.
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