Ancora qualcosa sul Capitale umano, di cui abbiamo già scritto in un precedente articolo. Nell’autunno del 1992 per primi in Italia, con alcuni colleghi parlavamo e lavoravamo sul Capitale Umano. Un argomento successivamente ripreso dall’ex presidente del consiglio Mario Monti e dal presidente della Repubblica Napolitano in un suo discorso di fine anno. Un tema poi discusso da molte altre persone.
Nell’azienda in cui lavoravo, eravamo impegnati nell’introduzione dello Human Capital Index, mutuato da una consociata inglese, uno strumento di lavoro realizzato anche con la collaborazione del Premio Nobel Tobin e in grado di evidenziare come le aziende che sviluppavano una corretta ed efficace gestione delle persone erano in grado di garantire migliori risultati. Questo era dimostrato innanzitutto per le società quotate ma era applicabile anche alle altre.
Il tutto partiva da un’indagine interna all’azienda, con l’utilizzo di particolari questionari. Poi seguivano: la loro elaborazione, l’identificazione delle criticità e le conseguenti operazioni di modifiche gestionali da applicare.
Vi posso garantire che fu un “veicolo” di lavoro molto impegnativo e certamente di consulenza innovativa. Per qualche anno, tra le aziende italiane partecipanti premiavamo la migliore. Erano anche gli anni in cui si cominciava a discutere, sempre con maggiore insistenza, di competenze.
Per introdurre il tema proponevo questo breve dilemma: “Quando di una persona diciamo che è competente”? utilizzavo anche la metafora dell’idraulico e riformulavo la domanda: “Quando di un idraulico diciamo che è competente”? La risposta immediata era sempre la stessa: quando risolve il problema, ripara il guasto. Ribadito che l’idraulico lo possiamo chiamare anche per la ristrutturazione parziale di un bagno, la discussione evolveva verso l’obiettivo d’individuare almeno cinque aspetti finalizzati alla conferma della nostra soddisfazione e alla certezza di proporlo ad amici o parenti e non per fare loro un dispetto.
Ecco quindi le caratteristiche determinanti: 1- Risponde con sollecitudine alla nostra chiamata, 2- Arriva con attrezzi e pezzi di ricambio, 3 – Non entra in casa con gli anfibi (magari sporchi di fango), 4 – Intrattiene un comportamento educato, 5- Richiede un compenso adeguato.
La prima considerazione riguarda le conoscenze. Da sole non bastano, ci vuole altro per garantire la nostra soddisfazione e poter sostenere la sua bravura. Quindi essere competenti significava e significa essere bravi: saper congiungere le conoscenze e i comportamenti. Le une e gli altri si possono acquisire basta porsi il problema e trovare le risposte adeguate.
Trasferendo questi concetti in azienda possiamo sostenere che un lavoratore è certamente bravo quando sa fare con criterio il proprio lavoro. L’aforisma, se credete, è: impara ad amare il lavoro che fai anche se non puoi fare il lavoro che ami.
Pertanto la corretta definizione di competenze sottolinea che si tratta di: “Un insieme di comportamenti applicati ed osservabili che creano un vantaggio competitivo per l’organizzazione”. Le competenze di una persona costituiscono una fetta della torta i cui ingredienti vanno dai valori individuali a quelli aziendali, alle conoscenze tecnico specialistiche, ai comportamenti di quell’azienda e non di altre, seppure simili come potrebbero essere le banche o le assicurazioni, ma necessariamente diverse per trovare un vantaggio competitivo.
Per finire: che cosa serve a un lavoratore per interpretare in maniera corretta il ruolo organizzativo che gli viene assegnato? Le conoscenze tecnico specialistiche, una parte del tutto, sono quelle indispensabili alla copertura del ruolo. Se faccio il bancario di sportello devo: saper contare i soldi, usare il programma applicativo per eseguire tutte le operazioni, conoscere le norme antiriciclaggio, caricare il bancomat e quanto altro di indispensabile. A tutto questo devo aggiungere i comportamenti che l’azienda per cui lavoro, mi richiede.
Completo queste note aggiungendo una dichiarazione che mi rilasciò l’allora generale dei carabinieri Francesco Coppola, tra l’altro responsabile di alcune missioni in Afghanistan. … “Per preparare un ufficiale impieghiamo almeno cinque anni perché una parte di questo tempo, soprattutto nel primo anno, è investita nel definire e costruire la percezione e la conseguente adesione interiore all’elemento fondamentale di un militare: la gerarchia e il rispetto degli altri. Il nostro obiettivo è allo stesso tempo evidente e ambizioso: vogliamo costruire all’interno della persona un sistema di competenze, conoscenze e comportamenti, necessari a ricoprire pienamente il ruolo atteso, ma questo avverrà solo dopo che l’aspirante abbia capito perfettamente che cosa lo attende e lo abbia accettato interiormente in modo inequivocabile.
E sapete perché? Perché nell’unità operativa, anche ascoltando con attenzione i suggerimenti e le opinioni dei suoi uomini, l’ufficiale ne sarà il capo e sarà solo. Lo Stato deve essere certo che egli saprà comandare assumendosene le piene responsabilità con chiarezza d’intenti e con valori limpidi. Non dovrà amare il comando per il piacere che ne può derivare, ma perché questo è il significato principale del ruolo. Lavoriamo quindi per creare un’architettura del sapere che si appoggia su un sentimento di condivisione. Uno dei requisiti principali del nostro mestiere è quello di essere affidabili”.
Certamente il concetto di affidabilità ha perso molto del suo significato. Così come quello di Stato. Non solo i militari devono saper assumere le loro responsabilità, ma ancor di più tutti le persone che lavorano nella Pubblica amministrazione. Dall’impiegato del Comune al ministro. In ogni caso resta il peso enorme che grava su ciascuno di noi; dobbiamo chiederci nella quotidianità: “Che cosa facciamo e come ci muoviamo, per modificare il nostro comportamento e facilitare il cambiamento che rischiamo di non comprendere? o se preferite, attuare le azioni di miglioramento verso la collettività? Cominciando magari dal condominio al quartiere, dalla città alla provincia, dalla regione, alla nazione? Come evitare di consentire che gli organismi i quali compongono lo Stato naufraghino verso le sponde della mancanza di assunzione concreta delle responsabilità? Lo Stato non è un’astrazione e neppure un’entità privata. Lo Stato siamo tutti noi, chiamati a vigilare ma anche a ribellarci di fronte a qualsiasi manchevolezza di chi si comporta in maniera incoerente e scorretta.
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