La paura, “cioè la cosa di cui ho più paura” – secondo la lampante definizione del premio Nobel per la pace del 1991 Aung San Suu Kyi – predicata contro il migrante, il diverso, il nero da parte di coloro che non hanno raggiunto una piena identità con se stessi, paura che viene usata per timore di perdere il potere o per la voglia di accrescerlo, non viene più usata da alcuni giorni come pretesto per scardinare l’Unione Europea.
Al contrario, proprio coloro che fino a poco tempo fa volevano uscire dall’Unione (“prima gli italiani”, “fuori dall’euro”, “padroni in casa nostra”) invocano ora l’aiuto dell’Europa per risolvere la grave crisi internazionale scatenatasi dapprima con l’uccisione del “martire” iraniano Soleimani e successivamente con la non meno grave crisi libica. Tutti dichiarano che solo un’Europa coesa potrà garantire una soluzione pacifica e tutti proclamano che si potrà risolvere le due crisi con il dialogo e l’impegno diplomatico (fuori dal coro, c’è solo uno strillone che dapprima corteggia Putin al fine di smantellare l’Unione Europea e successivamente concorda con Trump nel bombardare truppe iraniane poste in terra irachena!).
Ma che cosa può fare l’Europa? Credo poco. Per tre motivi. Anzitutto perché l’Europa è fortemente divisa al suo interno. L’uscita della Gran Bretagna l’ha indebolita sul piano dei suoi fondamenti valoriali; l’ampliamento a Est, pur indispensabile per ancorare i paesi ex-comunisti al nucleo dei paesi liberali e democratici, ha rafforzato, anziché smorzarla, l’identità nazionale dei paesi aderenti al patto di Visegrad; l’atteggiamento indecifrabile della Germania, dopo trent’anni dall’unificazione, dimostra di aver dimenticato il debito contratto con l’Europa; l’indifferenza dei paesi nordici verso l’importanza di una politica non esclusivamente economica sono alcuni fattori che hanno frantumato la solidarietà europea.
Questa Europa ha dimostrato di essere attrezzata per mediare tra interessi diversi, ma non tra valori diversi. Il fattore interno – tutto autoreferenziale – ha fatto perdere progressivamente la fiducia tra i Paesi membri. E tra questi c’è anche il nostro, che ha non poche responsabilità.
A onor del vero, si può constatare che questa posizione euroscettica sta scemando più all’interno negli stati nazionali che nel Consiglio europeo. Ne sono prova l’elezione del nuovo parlamento di Strasburgo, dove i partiti sovranisti non hanno sfondato, le elezioni dei sindaci di Budapest dove ha vinto il candidato dei verdi, fieri oppositori di Orbàn, di Praga dove si è insediato un candidato vicino al centro sinistra liberale, di Bratislavia dove il vincitore ha provocato un pesante calo al partito di governo, della lega dei sindaci polacchi vicini all’europeista Tunsk che si oppongono alle politiche oscurantiste del partito al governo.
Ma anche a livello di governi le cose stanno cambiando: in Austria il cancelliere Kurz ha formato un governo con i verdi, dopo che il suo precedente esecutivo – di chiara matrice nazionalista – era caduto a causa di uno scandalo che aveva colpito il capo dell’estrema destra, suo alleato di governo; in Croazia il socialdemocratico europeista Milanovic ha vinto le presidenziali battendo la presidentessa uscente fortemente conservatrice e sovranista.
Il secondo motivo che ci angustia non poco è dovuto alla apparente scarsa sensibilità della nuova Commissione dell’UE nei riguardi della conclusione della fase economica, punto di partenza per quella politica auspicata da molti cittadini. Non bastano, infatti, le buone e meritevoli intenzioni annunciate da Ursula von der Leyen al Parlamento Europeo (il futuro patto verde europeo, un’economia a servizio delle persone, uno sforzo per la digitalizzazione in tutta Europa, uno stile di vita europeo più rispettoso della nostra tradizione, un’Europa più forte nel mondo) a rendere veramente unita l’Unione.
Le risposte che von der Leyen ha annunciato a Strasburgo come sfida al cambiamento possono essere portate avanti senza nulla cambiare nelle istituzioni e nelle procedure dell’Europa, mentre ora ci si deve battere perché venga realizzata in tempi finiti una compiuta unione economica che accompagni l’unione monetaria e metta al sicuro il mercato unico, rigeneri e consolidi l’area Schengen scossa dall’immigrazione incontrollata.
A Maastricht il risultato del negoziato per la creazione dell’euro era rimasto zoppo perché la moneta unica è basata unicamente sul rispetto delle regole di bilancio (e le sue conseguenze le abbiamo esperimentate in questi anni: basti pensare al recente meccanismo europeo di stabilità!), ma è mancato un efficace coordinamento delle politiche economiche.
Gli annunci della presidente della Commissione, a mio avviso, sono corollari che possono essere raggiunti solo dopo il completamento della fase economica. Le incomprensioni fra stati, l’incomunicabilità confermata dall’incrollabile indifferenza di Berlino nei confronti delle sue politiche mercantilistiche e delle loro conseguenze deflattive all’interno dell’Europa, la stessa incomprensione in materia di immigrazione sono fattori che indeboliscono la coesione europea.
Il terzo motivo, ultimo, ma il più importante, è che oggi l’Unione Europea manca di una comune visione antropologica, culturale e spirituale, su cui fondare la sua unità politica. Se l’ondata sovranista sembra essersi smorzata, essa ha lasciato tuttavia il segno. Senza un’idea intorno ai suoi fini e senza concreti passi avanti verso l’unità politica, l’Europa rischia un ridimensionamento del suo progetto in chiave federalista.
Accanto al programma della nuova commissione, occorre inserire un ambizioso piano per la formazione del cittadino europeo che parta dalle scuole di tutta l’Unione magari tirando fuori dall’archivio il piano curricolare che fu steso alla fine degli anni ’80 da una commissione formata dai migliori pedagogisti d’Europa. Obiettivo è “narrare” l’Europa (come dice Cacciari) “attraverso le grandi opere dello spirito, della critica, della ragione”. Educare a una comprensione europea, anzi planetaria, formare lo spirito europeo nei giovani attraverso lo studio della storia e della filosofia condivise, costruire una coscienza europea nei cittadini sono condizioni essenziali per conoscere i fini del progetto europeo. Si può vincere un’elezione grazie ai twitter, alla propaganda, ma non si arriverà all’unità politica dell’Europa senza conoscerne la sua missione.
È quello che si augura papa Francesco, che parlando recentemente al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno, dopo aver ricordato gli sforzi compiuti dal “padre dell’Europa” Robert Schuman, ha detto: ”Il progetto europeo continua ad essere una fondamentale garanzia di sviluppo… L’Europa non perda dunque il senso di solidarietà che per secoli l’ha contraddistinta… non perda lo spirito che affonda le sue radici nella pietas romana e nella caritas cristiana”. Senza il rispetto di questi valori, l’Europa è condannata al declino.
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