Zingaretti commissaria i suoi in un’ex abbazia: bisogna imparare il modo giusto per elemosinare voti, qualora s’andasse presto alle urne. Ma ci si andrà, come invoca la destra e sostengono molti? Probabilmente no. Il capo dei Dem confida in un rassemblement della sinistra-centro: il Pd, i Cinquestelle, Bersani, Renzi e avanzi di popolar/riformismo. Tutti dentro per non essere buttati fuori dal gioco del potere. Due gli scenari possibili.
Ipotesi uno. Bonaccini vince le regionali d’Emilia Romagna. Il governo si consolida, la maggioranza avvia il rimpasto. Ergo: meno corda a Di Maio, più agli anti-Di Maio del mondo pentastellato. E poi buffetti a Renzi affinché non rompa e invece costruisca. Sulla revisione della legge elettorale (e su centinaia di nomine in arrivo nel baraccone degli enti di Stato) cenni di possibile intesa a Berlusconi, Meloni e perfino Salvini. I primi due interessati a tirar la legislatura un po’ per le lunghe, nell’attesa di riguadagnare consenso (Berlusconi) e di aumentarlo ancora (Meloni). Il terzo costretto bongré malgré a stare al gioco, e fiducioso che un riassetto in chiave proporzionale possa comunque favorirlo, alla riapertura delle urne. Nel frattempo, Zinga cerca il recupero extrapartito: l’obiettivo è di pescare nel mare delle sardine. E allora: avanti fin che si può, possibilmente con traguardo 2023, così da eleggere con l’attuale Parlamento il nuovo presidente della Repubblica fra due anni. Prodi favorito, senza escludere sorprese. Ne sa qualcosa egli ipse, nel 2015 sacrificato all’attuale inquilino del Quirinale. Oggi pare Marta Cartabia, presidente della Corte Costituzionale, la grande alternativa.
Ipotesi due. Bonaccini viene sconfitto dalla Borgonzoni. Richiesta d’anticipo elettorale di Salvini e Meloni, con accodamento forzoso di Berlusconi. Ma Zinga, pur se non entusiasta, resiste a far dimettere i suoi ministri. E Grillo pure. Parliamo di Grillo, dato che Di Maio -in presenza del catastrofico rovescio- o farà o gli sarà imposto di fare la volontà dell’Elevato: levarsi di mezzo. Conte s’incarica di spiegare e rispiegare urbi et orbi che le regionali (non scordiamo anche il verdetto calabrese) sono una cosa, e le politiche un’altra. Mattarella potrebbe eccepire? Mattarella è tenuto non a interpretare politicamente una situazione, bensì a valutarla sotto il profilo costituzionale. E amen. Se la maggioranza di Montecitorio e Palazzo Madama gli garantisce sostegno al governo, il capo dello Stato non batte ciglio. Figuriamoci se gli s’inumidisce causa il ringhio dell’oppositore di turno, pur se del rango/consenso d’un Capitano.
Anche in tal caso, quindi, l’esecutivo giallorosso continuerà ad aver vita. A meno che non decida di togliersela da solo, ponendovi fine causa risse interne. Ovvio che il nodo è la situazione dentro l’M5S, già spaccato adesso e chissà quanto di più dopo gl’imminenti verdetti popolari, che minacciano grevi punizioni all’avventurismo della ‘gestione Giggino’. Di conseguenza, la soluzione che al momento raccoglie i favori del pronostico è la seguente: Di Maio saluta, e i Cinquestelle non se ne vanno dal Conte bis. O perlomeno buona parte di loro, ben lontani dall’idea di mollare poltrone e prebende, sentimento condiviso da un folto gruppo di “responsabili” di vario conio partitico, pronti in Parlamento a tener duro per non mollare lo scranno. In un tale collante fida l’Avvocato del popolo italiano per autorigenerarsi nel Conte ter. Da burattino a burattinaio, chapeau.
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