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Quella volta che

SCULTURE NEL PARCO

MAURO DELLA PORTA RAFFO E MASSIMO LODI - 10/01/2020

 

-Caro Mauro, quella volta che…

“Caro Massimo, quella volta che Varese s’inventò patria della scultura”.

-Addirittura?

“Addirittura. Si decise infatti d’allestire una mostra curiosa per la cornice ambientale, oltre che per il livello dei partecipanti”.

-Perché curiosa?

“Perché venne organizzata all’aperto, nel parco di Villa Mirabello”.

-Opere en plein air?

“Proprio così”.

-A chi venne l’idea?

“Di preciso non so. Ma so che del comitato organizzatore facevano parte Luigi Ambrosoli, Giuseppe Bortoluzzi, Piero Chiara, Dante Isella, Manlio Raffo e Bruno Ravasi”.

-Un parterre de roi…

“Ma roiroi. Personalità di gran livello, ciascuno nel suo settore”.

-Periodo?

“La prima volta nel 1949, la seconda nel ‘53”.

-Partecipanti?

“Gente altro che bella. Bellissima. Italiana e non. Per esempio: George Braque, Umberto Boccioni, Edgar Degas, Lucio Fontana, Alberto Giacometti, Umberto Mastroianni, Pablo Picasso, Medardo Rosso, Henry Moore. Più altri numerosissimi: non decine, ma centinaia”.

-Come portar qui così tante firme?

“Rete di conoscenze del comitato organizzatore. Di Chiara in primis: era ancora lontano dalla popolarità di scrittore, però aveva già contatti, e che contatti, nel mondo dell’arte. Pur essendo giovane, trentasei-trentasette anni”.

-Organizzazione pratica?

“Dell’Ente provinciale del turismo, diretto da mio padre. Cominciava l’epoca, ne abbiamo già detto, d’iniziative di prestigio culturale che avrebbero fatto apprezzare Varese in Italia e all’estero”.

-Difficoltà?

“Immagino molte. Però superate con leggerezza. Non fu semplice trasferire qui opere d’elevato valore, e di conseguente rischio. Ma lo si fece senza eccessi di preoccupazione. Oggi sarebbe impossibile replicare allo stesso modo: troppi vincoli, responsabilità, pericoli”.

-Compreso quello di lasciare alla mercé di chiunque un centinaio, e forse più, di capolavori per giorni e giorni…

“Compreso quello. Innanzitutto quello. Era un altro mondo, circolava un diverso rispetto, imperava una ben diversa educazione”.

-Cioè: meno malvivenza…

“Assai meno. I princìpi del vivere comune, largamente condivisi nel dopoguerra, aiutavano a far crescere generazioni di profilo etico oggi sconosciuto. Salvo eccezioni”.

-Il passato è sempre migliore del presente?

“Sempre non posso dirlo. Per l’esperienza che ho fatto io, sì. A cominciare dalla scuola. Avevo compagni di rango sociale inferiore, ma erano d’una educazione straordinaria. Figli d’operai e contadini, conoscevano i fondamentali della coesistenza civile meglio di altri. Studiavano con impegno, umiltà, sacrificio. Sarebbero diventati la futura classe dirigente varesina”.

-Torniamo alla scultura. Improponibile l’idea di settant’anni fa?

“Assolutamente. Non ci sarebbero i soldi, gli uomini, le condizioni, l’ambiente adatti all’impresa. Perché si trattò d’una impresa. Eccezionale”.

-Peraltro dimenticata…

“La stranezza è questa. Varese dispone d’un archivio straordinario di tesori culturali, e però i varesini non ne sanno nulla. Bisognerebbe risvegliare la memoria collettiva, non potendo rinverdire i fasti d’un tempo”.

-Per concluderne che cosa?

“Che l’adoperarsi da naif, lo spirito di volontariato, l’amore per il territorio non sono chiacchiere da album retorico. Sono fatti. Scolpiti nella nostra storia come un Martini, un Matisse o un Manzù nelle aiuole dell’ex dimora dei Litta Modignani”.

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