Come quattro anni fa, anche in questo lungo periodo pre-elettorale negli USA ho potuto cominciare a girare gli States cercando di capire l’aria che tira.
Come avviene ormai da oltre un secolo si voterà il primo martedì di novembre, ma se i candidati repubblicani sono praticamente certi da tempo (Donald Trump, con il suo vice Mike Pence, l’ex governatore dell’Indiana) in campo democratico i giochi sono ancora tutti da fare con una decina di aspiranti alla “nomination”.
Proprio l’incertezza sul nome degli sfidanti è uno degli elementi che rendono ancora più imprevedibile l’esito e l’andamento della campagna elettorale caratterizzata per ora dalle polemiche democratiche e dalle sprezzanti repliche di Trump.
Quattro anni fa nessuno scommetteva su Donald vincente (o quasi, visto che per mesi io – personalmente – sottolineavo il clima che invece si respirava in America, disprezzato da gran parte della stampa italiana) e pochi mesi dopo le elezioni quasi tutti i media americani – anche perché in gran parte schierati con i democratici – ne prevedevano un rapido declino. A dieci mesi dal voto, invece, Trump è oggi addirittura leggermente avanti nei pronostici.
C’è un elemento fondamentale e nuovo che però si percepisce: per decenni l’americano medio – comunque avesse votato – riconosceva poi nel ruolo e nella figura del Presidente eletto l’identità nazionale, mente oggi i giudizi su Trump sono molto più netti e radicati in una sorta di progressiva accentuazione delle differenze, spaccatura tra gli elettori ed in definitiva una radicalizzazione del voto.
In America vince non tanto chi è meglio giudicato dai sondaggi ma soprattutto tenendo conto della percentuale dei cittadini che si iscrivono nelle liste elettorali (ogni volta che si vota bisogna esprimere ufficialmente questo desiderio) e che poi vanno effettivamente al seggio o esprimono il voto per posta.
Oggi i supporter di Trump sono molto decisi, rumorosi e determinati sul loro candidato, mentre molti contrari che lo detestano apertamente prima di decidere di recarsi a votare vogliono capire chi sarà il candidato democratico.
Il voto per Trump (che perse sul totale dei voti popolari, ma conquistò gli stati-chiave che decidono i grandi elettori presidenziali) nel 2016 fu più una disaffezione contro Hillary Clinton piuttosto che una simpatia verso di lui, allora un eccentrico ma ricco sconosciuto. Molti democratici non votarono e questo allora favorì Trump, ma anche questa volta molti elettori andranno a votare solo se si identificheranno con il candidato democratico.
C’è comunque un elemento fondamentale che domina il momento politico negli USA ovvero l’andamento dell’economia e proprio gli innegabili successi di Trump su questo punto soddisfano e spronano l’elettorato repubblicano spesso comunque parzialmente in disaccordo con i toni, gli insulti, il porsi in modo sempre diretto e al limite dello scontro che caratterizza i rapporti di Trump – per esempio – con la stampa e molti giornalisti.
L’economia USA infatti tira bene, la disoccupazione è scesa al minimo storico, la gente spende (fin troppo), il valore degli immobili è tornato a salire.
“Il compito di un presidente è trovare lavoro alla gente, poi devi arrangiarti da te, le altre sono solo fregnacce – sottolinea l’autista di colore che mi accompagna all’aeroporto – …e speriamo quindi che vinca ancora Trump”.
“No! Trump è un buffone, un ignorante, una capra” commenta invece un democratico casualmente vicino di tavola in Florida. “Ma se i democratici candidano la Warren o Sanders, io non andrò a votare”. Bloomberg? “È un miliardario che non ha nulla a che fare con noi, però è pieno di soldi e quelli servono sempre per vincere…”.
Commenti e sensazioni radicalmente opposte sulle quali conterà molto il volto del candidato democratico alternativo, che potrebbe azzeccare un ambo vincente scegliendo per “vice” una figura prestigiosa, magari proprio quella Michelle Obama che non parteciperà alle “primarie”.
L’ex first lady potrebbe infatti spingere al voto democratico le minoranze etniche che certo non possono amare un Bloomberg ricco sfondato, un democratico anomalo (infatti è un ex repubblicano) che però potrebbe rosicchiare voti a Trump proprio perché ne è una più ricca (e colta) fotocopia.
Ma chi sono i pretendenti democratici? Ancora troppi per capire dove si andrà a finire passando dall’ “ultrasinistra” Elizabeth Warren (che propone una tassa patrimoniale sui capitali) all’eterno Bernie Sanders e soprattutto a Joe Binden che però zoppica per l’affare ucraino dove – se Trump è sotto impeachment – è stato proprio suo figlio che in Ucraina ha causato un mare di guai sostanzialmente insabbiati dall’amministrazione Obama.
Potrebbe forse uscire alla distanza Joe Walsh, rassicurante e popolare, se l’onda d’urto di Michael Bloomberg non spazzerà via tutti a colpi di spot.
La discesa in campo del miliardario Bloomberg (una copia democratica di Trump ma addirittura molto più ricca) ha sconvolto gli equilibri e i pronostici democratici anche perché Bloomberg ha già annunciato che non parteciperà alle primarie salvo che a quelle del “big Tuesday” di metà campagna e quindi anche chi allora sarà in testa rischierà di essere messo in ombra. Una scossa dentro e fuori il partito democratico nei suoi tradizionali bacini di voti dove spesso Bloomberg non è amato ma – se fosse effettivamente un potenzialmente vincente – potrebbe soprattutto coagulare intorno a sé le speranze di sconfiggere Trump.
Difficile per i democratici coniugare un pensiero di sinistra con Bloomberg o coinvolgere gli elettori emarginati che andarono al voto per Obama anche per essere il primo nero prima potenziale e poi effettivo presidente nella storia degli USA.
Ma proprio Bloomberg potrebbe attirare anche voti repubblicani scontenti dei modi – più che dei contenuti – di Trump.
Un bel match ancora tutto da decifrare, ma che potrebbe essere condizionato da passi falsi dell’attuale presidente in politica estera (il medio oriente -con l’inasprirsi dei contrasti con l’Iran e le possibili conseguenze-, i rapporti con la Cina, qualche attacco od attentato sciita) o per una improvvisa crisi economica. La borsa è infatti salita molto, ma se è fisiologico un suo ridimensionamento dopo tanti mesi di rialzo la crisi che si teme arriverò prima dopo il voto e come inciderà sulle scelte?
Dubbi concreti, mentre l’economia è il tema principale degli spot, con a seguire le problematiche dell’assistenza sanitaria, l’immigrazione e la sicurezza mentre con solo il 13% dell’elettorato – secondo un sondaggio CBS – che vedrebbe la priorità nei temi ambientali.
Sullo sfondo c’è infine la questione dell’impeachment di cui si parla molto, ma il cui risultato è scontato: il Senato (dove la maggioranza è repubblicana) non darà l’assenso a far deporre il presidente e l’operazione potrebbe invece addirittura rendere a Trump molte soddisfazioni (e voti) permettendogli di ricordare ad ogni comizio o audizione che è durata tre anni (ma è finita nel nulla) la vicenda Russiagate e che i suoi guai in Ucraina sono legati a quelli combinati dal figlio di Biden – accusato di corruzione – ben prima di lui.
Accuse, contraccuse, critiche alla Pelosi che ha insistito per portare i democratici allo scontro diretto con il rischio di farsi male: il campo democratico è molto diviso e ciò non può che facilitare il presidente uscente.
Ma i giochi sono aperti, gli scenari tutti da scoprire, novembre è ancora molto, molto lontano.
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