Chiedersi il perché, ogni tanto apre le porte a una mobilità critica che permette di produrre una fattiva revisione dell’identità. Una volta l’esame di coscienza era all’ordine del giorno, sollecitato dal catechismo, allorquando il sacerdote invitava a riflettere sulla propria condizione morale, chi desiderava ricevere il corpo di Cristo alla Comunione. Era la prassi. S’imparava strada facendo che il pensiero riflessivo aveva una funzione esorcizzante, esplicativa e cautelativa, che fermarsi a pensare poteva imprimere forze ed energie nuove al modo di essere, agendo positivamente sulla propria vita e su quella di relazione.
Spesso ci si domanda come mai chi ha pubbliche responsabilità non s’impegni in un sincero esame di coscienza prima di affrontare le giustificate attese del mondo. L’esperienza quotidiana dimostra che esistono grosse carenze di natura comunicativa e di natura affettiva, l’uomo non riesce a controllare la sua inquietudine e la riversa senza troppi scrupoli su chi gli capita a tiro, dimostrando quanto siano poco conosciuti l’educazione, il rispetto, l’autorità, le regole, la dignità e l’identità.
Viviamo il tempo di una ingiustificata licenziosità che distrugge la dignità e l’identità. Se da una parte si fa di tutto per costruire, dall’altra si fa altrettanto per annullare.
Avere una buona coscienza identitaria è fondamentale per sé e per i rapporti con il mondo, quello con il quale dobbiamo stabilire relazioni, interazioni, interlocuzioni e anche rapporti di natura socio affettiva. Ecco cosa manca di più oggi, la capacità di dare un volto, un cuore e un’anima alle persone che incontriamo durante il nostro cammino. Camminiamo, camminiamo, ma spesso poniamo poca attenzione al mondo che ci circonda, non accendiamo il contatto, pensiamo di sapere già tutto, mentre in realtà ci perdiamo la parte più interessante, quella che ci consentirebbe di conoscere meglio il carattere, la spiritualità, la voglia di comunicare, di aprirsi al dialogo.
Avere una coscienza affettiva serve. Serve a mantenere in vita una condizione umana sempre più confusa e disorientata, serve a imprimere delle accelerazioni soprattutto quando la visibilità è ridotta e la mente fatica a ritrovarsi, serve a dare un senso alle scelte che facciamo, serve soprattutto a capire se i nostri atteggiamenti e comportamenti siano davvero consequenziari.
Oggi si è perso di vista l’esame di coscienza come sintesi preventiva di una condizione, si agisce più sull’onda di impulsi e di interessi personali che non con la mente e il cuore rivolti alla nobiltà di un sistema solidale, dove i bisogni dell’uno diventano quelli dell’altro.
Ritrovare la coscienza è il primo passo verso la libertà quella vera, quella che consente all’essere umano di vivere appieno la propria umanità, nella certezza di non aver trascurato nulla per rendere più vivibile la propria storia. Vivere la coscienza, riportarla in luce, farla di nuovo diventare l’accompagnatrice per eccellenza, riservarle quello spazio che merita, consentirle di illuminare la via sono passaggi che aiutano a ridefinire un modo di essere, di fare, di pensare, significa soprattutto riabilitare la capacità di cogliere il senso di quello che facciamo e di come lo facciamo. Lavorare con coscienza, agire con coscienza, parlare con coscienza, essere coscienti della forza trainante del bene, essere consapevoli del ruolo che ciascuno ha ed esercita dentro la vita comunitaria, avere coscienza della forza dei valori esercitandoli, sono aspetti di uno strumento che consente di riabilitare la natura umana ogniqualvolta si lascia travolgere da varie forme di materialismo.
Ogni aspetto o spazio della vita ha un estremo bisogno di coscienza, di poter esercitare consapevolmente il proprio ruolo, quei compiti che la società assegna a tutti indistintamente, perché la vita si realizzi in tutta la sua straordinaria vitalità.
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