La Brexit si farà. Questo è ciò che è emerso dalle elezioni generali nel Regno Unito dello scorso 12 dicembre. Per i labour di Jeremy Corbyn si tratta della più pesante sconfitta dal 1935 nonostante, va ricordato, il risultato sia uno dei migliori degli ultimi vent’anni in termini assoluti. Ma questo è il sistema inglese.
Il voto si presentava come un referendum bis sull’uscita del Regno dall’Unione e quasi il 44% dei votanti ha conferito il mandato a Boris Johnson, portabandiera della Brexit a ogni costo.
Molti hanno individuato nel personaggio di Corbyn e nel suo programma radicale le cause della clamorosa batosta. E in effetti le proposte dei labour devono essere suonate particolarmente estreme ai sudditi di Sua Maestà, più abituati alla moderatezza figlia di una legge elettorale fortemente maggioritaria e un sistema bipartitico, oltre che di una cultura politica peculiare. Università gratuita, nazionalizzazioni, aumento delle tasse per i più ricchi e mantenimento del servizio sanitario gratuito: sono alcune delle proposte messe in campo dai labour.
Occorre precisare che, prima di dipingere improbabili paragoni fra lo scenario politico britannico e quello italiano, bisogna equipaggiarsi di una gran dose di cautela e discernimento. Boris Johnson non è la versione d’oltremanica di Salvini; Corbyn non è uno Zingaretti con più capelli.
Certamente, Corbyn non si è dimostrato all’altezza della sfida: oltre ad aver gestito male le accuse di antisemitismo rivolte ai labour, non ha saputo comunicare con efficacia la sua idea di Regno Unito, la sua figura non è mai stata particolarmente gradita nei sondaggi; la presentazione delle sue proposte forti, arrivata a fine novembre, ha dato l’impressione di un disperato tentativo per recuperare Johnson. Non è da escludere che le sue proposte abbiano spaventato l’elettorato; ma, allora, bisogna anche spiegare per quale motivo i labour hanno ottenuto la maggior parte dei loro voti nelle città, dove si presume ci sia più benessere; oppure perché il famoso red wall, zona povera e tradizionalmente labour nel nord dell’Inghilterra, sia stato espugnato dall’onda blu, proprio là dove le politiche di Corbyn avrebbero potuto, almeno in teoria, generare più benefici; e ancora, perché i Liberaldemocratici, con un programma tipicamente moderato, hanno ottenuto meno del 12%.
L’ambiguità sulla Brexit è forse la colpa più grave che viene imputata al leader labour: alla linea ferma e decisa del “Get Brexit done” di Johnson non ha saputo contrapporre un’alternativa altrettanto chiara, su un tema che dal 2016 ossessiona l’opinione pubblica britannica e mette a dura prova l’economia del Regno. Con BoJo il Regno Unito potrà finalmente concludere il capitolo Brexit e voltare pagina; lo stesso, probabilmente, non sarebbe avvenuto con Corbyn. Del resto, trovare una posizione era tutt’altro che semplice: schierarsi per il Leave avrebbe messo in difficoltà gli europeisti labour; scegliere il Remain, invece, non ha portato bene ai Libdem, che incassano appena undici seggi (sebbene con un +4% rispetto al 2017).
Alla luce di ciò, chi più di tutti dovrebbe interrogarsi sul risultato del voto è l’Unione Europea: un’Unione che da tanti viene percepita come ostile, vera causa del malessere economico, anche per le politiche di austerity che l’hanno guidata negli ultimi anni.
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