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Opinioni

CAPITALE UMANO

ANTONIO MARTINA - 13/12/2019

spesaA proposito di nuove generazioni, usiamo spesso i termini che le definiscono, ecco un breve riepilogo: Baby boomers, sono considerati i nati tra il 1946 e il 1964; Generazione X i nati tra il 1965 e il 1980; Generazione Y i nati tra il 1981 e il 1999, detti anche millenials; i nati dopo il 2000 appartengono alla Generazione Z. Le ultime due sono quelle che hanno un’elevata dimestichezza con la tecnologia e non concepiscono qualsiasi rapporto necessario se non è collegato ad una piattaforma digitale che consenta di recuperare e verificare i dati che vengono loro proposti: questo è per tutti un nuovo paradigma. È vero che i prossimi anni saranno influenzati, numericamente ed economicamente, dalla terza e quarta età, subito seguite dai baby boomers ma dobbiamo lavorare per i millenials e per la Generazione Z.

Lo slogan ricorrente è diventato: “il futuro è già oggi”, per sottolineare l’urgenza degli interventi. Secondo l’indagine Ocse 2018, solo in matematica i quindicenni italiani risultano in media con gli altri Paesi; per il resto l’Italia è abbondantemente sotto e addirittura tra il 23esimo e il 29esimo posto per capacità di lettura. Si confermano: il divario tra Nord e Sud, tra maschi e femmine e tra licei e istituti professionali. Sanno distinguere tra fatti e opinioni quando leggono un testo di un argomento a loro non familiare? Un quindicenne su venti riesce a farlo. La media Ocse è di uno su dieci.

Mentre gli studenti che hanno difficoltà con gli aspetti di base della lettura sono uno su quattro: non riescono ad identificare, per esempio, l’idea principale di un testo di media lunghezza. Ecco emergere l’importanza del nostro “secondo pilastro” costituzionale: la scuola (preceduto dal primo: il lavoro e seguito dal terzo: la sanità). Gli addetti ai lavori, gli insegnanti, sanno quanta importanza debba essere riservata alla meritocrazia e alla cultura nello sviluppo di un Paese che voglia rimanere nella globalizzazione da protagonista.

E ancora, perché non riusciamo a investire sui giovani i quali sono costretti a emigrare? La risposta che sento spesso è: mancano i soldi! Questo è vero! (meglio sarebbe dire: “perché spesi male e al netto dell’evasione che non riusciamo a recuperare”). Ed è per questo che l’investimento dell’Italia, per anno e per ciascuno studente che arrivi alla laurea, ammonta a 4.919 euro, mentre nell’Unione Europea è di 8.000 euro e negli Stati Uniti d’America di 24.230 dollari (circa 22.500 euro). Dobbiamo anche ricordare che:

  • in Cina i laureati sono oggi il 55 per cento degli ingegneri di tutto il mondo;
  • il Governo Indiano ha dedicato alla ricerca, già nel 2014 il 2 per cento del suo pil, una percentuale più alta di quella stanziata nel nostro Paese;
  • fra 30 anni, il 63 per cento della popolazione della Corea del Sud avrà una laurea e la metà della popolazione mondiale un’elevata qualificazione e quindi un capitale umano ricchissimo.

Per i contribuenti il costo di produzione di un laureato in Italia è di molto superiore a cento mila euro, dovendo considerare anche i cosiddetti costi di struttura. Ogni volta che una di queste persone lascia l’Italia, quell’investimento in sapere se ne va con lui o con lei. Negli ultimi anni le destinazioni preferite sono state: Gran Bretagna, Germania e Svizzera. Si tratta di un colossale sussidio implicito versato dall’Italia ad altri Paesi ogni volta che un migrante fa le valigie. È diventato un fenomeno macroeconomico che i nostri Politici non hanno mai cercato di fermare. Anzi alcuni di loro hanno rilasciato, nel tempo, considerazioni “interessanti”. Nel 2007 il ministro Padoa Schioppa aveva sentenziato: mandiamo i bamboccioni fuori di casa. Poi il vice ministro Martone: dobbiamo dire ai nostri giovani che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato. Nel 2012 la sentenza Fornero: non bisogna mai essere troppo choosy (schizzinosi). Poi la perla finale! L’allora ministro Giovannini, il 9 ottobre 2013, aveva dichiarato: “L’Italia esce con le ossa rotte dai dati dell’Ocse diffusi ieri; ci mostrano come gli italiani siano poco occupabili, perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per muoversi nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro”. I pochi dati Ocse del 2018 sopra riportati, non sono confortanti se, su una media di uno su dieci, da noi solo uno su quattro ha difficoltà con gli aspetti di base della lettura.

Per chiudere riporto le scritte finali di un film di Paolo Virzì e titolato: Il Capitale Umano. La storia si sviluppa attorno a un incidente mortale. “La compagnia di assicurazione dell’auto di Massimiliano ha negoziato con i familiari di Fabrizio, vittima dell’incidente, un risarcimento di 218.976 euro. Importi come questo vengono calcolati valutando parametri specifici: l’aspettativa di vita di una persona, la sua potenzialità di guadagno, la quantità e la qualità dei suoi legami affettivi. I periti assicurativi lo chiamano: il capitale umano”.

Un’assurdità figlia del nostro sistema sociale, politico, economico. Una vita stroncata, risarcita con 218.976 euro. Si tratta di un importo ridicolo persino rispetto al valore medio di ciascun italiano calcolato dall’Istat e pari a 342.000 euro. Il nostro Paese avrebbe uno stock di capitale umano di circa 13.475 miliardi, un valore otto volte superiore al PIL. Lo stock di cui si parla non è uniformemente distribuito tra i diversi gruppi della popolazione. Le stime per genere, età e livello d’istruzione mostrano come gli uomini abbiano un valore relativo alle attività di mercato più elevato rispetto alle donne (66 per cento contro il 34), lo stesso vale per i più giovani rispetto ai più anziani e per le persone con istruzione superiore.

Che nessuno abbia mai un incidente. Nella male augurata ipotesi dovremmo solo sperare di non investire un giovane benestante perché, in aggiunta al trauma, potremmo trovarci nella tragica situazione di non avere sottoscritto una copertura assicurativa capiente per il risarcimento di quel “capitale umano”.

 

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