“The Irishman”, ultimo film di Martin Scorsese, si apre come non ci si aspetterebbe da un gangster movie. Non vediamo il rosso del sangue, ma solo il bianco della casa di riposo in cui si trova Frank Sheeran, protagonista indiscusso, interpretato da Robert De Niro e affiancato da Al Pacino e dall’attore feticcio di Scorsese, Joe Pesci, che aveva già recitato con De Niro in due cult dello stesso regista, “Quei bravi ragazzi” e “Toro scatenato”.
La vita di Frank scorre parallela alla storia americana della seconda metà del Novecento ed è lui che la racconta in tutto il suo dinamismo, opposto all’immobilità della sedia a rotelle su cui è costretto. Il suo è un monologo interiore che diventa la voce fuori campo che narra gli eventi mentre ripercorre la sua vita con un misto di orgoglio e rimpianto. Frank ci conduce attraverso i suoi anni d’oro, dagli eventi traumatici della guerra, a un incontro casuale con il boss del crimine Russell Bufalino (Joe Pesci) fino a entrare nell’ orbita del discusso sindacalista Hoffa (Al Pacino), al tempo famoso quanto Elvis e i Beatles. Tutto ciò è inserito all’interno di un viaggio in macchina del 1975 dalla Pennsylvania al Michigan, ultimo capitolo della vita di Frank e Russell ormai anziani. Questa è la cornice iniziale che viene interrotta da numerosi flashback grazie ai quali i due rivivono il passato in cui “dipingevano case”, vale a dire regolavano i conti sporcando i muri di sangue, metafora legata al titolo del libro da cui è tratto il film, “I heard you paint houses” di Charles Brandt.
Il film ricostruisce un esteso arco di tempo, dà vita a molti protagonisti del mondo della mafia italoamericana, mostra le reazioni dell’America alla parabola dei Kennedy, le agitazioni politiche e i crimini commessi da individui come Frank, che diventa un affidabile sicario e uomo di fiducia di Hoffa durante il suo progressivo declino. Nonostante la vastità degli eventi narrati e la lunghezza che sfiora le tre ore e mezza, la pellicola (che ormai non è più tale in quanto prodotta appositamente per la piattaforma online Netflix) rimane unita grazie a una fondamentale chiave di lettura: “it is what it is”, “è quello che è”.
La battuta è ripetuta spesso nel corso del film, in quanto è l’unica giustificazione che viene fornita per le tragedie che si consumano sullo schermo. Essa rivela infatti il messaggio ultimo di Scorsese, qui votato a una concezione prettamente fatalista dell’esistenza che si riflette nella prospettiva da cui Frank narra le vicende. Egli sembra solo constatare che un fatto è avvenuto, come se la violenza fosse qualcosa di inevitabile, come se uccidere fosse un lavoro necessario a cui qualcuno si deve dedicare. Si racconta come un semplice esecutore del corso degli eventi che non può mai essere deviato perché “è quello che è”, cioè un flusso in cui l’uomo non può che essere trascinato e in cui non rimane molto spazio per la morale.
In questo senso, Frank è un antieroe tale da essere rifiutato dalla sua stessa figlia che prova ribrezzo e terrore per quel sangue omicida che scorre nelle vene del padre. Il regista, però, è abile nell’instillare un dubbio nello spettatore: Frank fa il suo lavoro in silenzio, guadagna soldi per la famiglia e agisce come gli viene detto. Non a caso queste sono esattamente le qualità di un buon Americano, che sono spesso sottolineate nello svolgersi della storia come a voler dire che Frank da una parte realizza il sogno americano del self-made man, ma ci riesce al contrario, in quanto la sua è una crescita in negativo che lo porta dal vendere carne a compiere crimini per i boss più potenti dell’epoca.
Il fatalismo di “it is what it is” è reso evidente anche dall’aspetto puramente visivo del film, spesso immerso in atmosfere scure, ambientato in luoghi chiusi e scandito dalle date di morte che compaiono in sovraimpressione ogni volta che viene introdotto un nuovo personaggio. La dimensione mortuaria di “The Irishman” (che si propone come una riscrittura funebre di “Quei bravi ragazzi”) è inoltre rievocata dal ripetersi del piccolo rito, quasi un’allusione simbolica all’Ultima Cena, in cui Frank e Russel intingono il pane nel vino, dall’inizio della loro amicizia fino all’estrema vecchiaia, prefigurazione della fine a cui tutto è destinato.
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