Il suo motto, preso a prestito da S. Agostino, era “il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri”. E la sua vita riservata, generosa e altruista l’ha spesa in gran parte per questo scopo. Urbano Aletti, mancato nei giorni scorsi a 96 anni, padre di sei figli tra cui Francesco, ex vicepresidente di Ubs Italia, appassionato di cavalli, che ha dato nuova vita al borgo di Mustonate trasformandolo in una piccola Ascot, è stato presidente per molti anni della omonima banca privata in centro a Milano, ex senatore DC alla fine degli anni ‘70 nella stagione del rinnovamento di Benigno Zaccagnini, membro della commissione finanza e tesoro del Senato e per un triennio presidente della Borsa e della federazione delle Borse mondiali. Un “principe” di Piazza Affari con il cuore a Varese.
Non amava apparire, neppure quando ebbe in mano le sorti del mercato finanziario mondiale nel triennio 1980-1982, neppure quando operò nell’agone politico come rappresentante del popolo dal 1976 al 1979. Erede della borghesia laboriosa e severa che si è forgiata nello spirito austero di Carlo Borromeo, fu l’espressione di quelle famiglie che gestiscono la ricchezza personale con spirito di solidarietà, consapevoli della funzione sociale a cui sono moralmente tenute. Famiglie che sanno di trovarsi in una posizione di privilegio rispetto ai problemi sociali e li affrontano con senso di responsabilità, che amministrano ma non si sentono “padrone” della ricchezza e la finalizzano al bene comune.
“La nostra è una famiglia di banchieri e di agenti di cambio fin dal 1826 quando a Milano comandava il feldmaresciallo Radetzky e un mio avo fabbricava carrozze – amava raccontare – Mio nonno Giovanni era proprietario di villa Spartivento a Biumo Superiore e io da piccolo ci trascorrevo le vacanze con i miei cinque fratelli ogni estate dal 25 giugno fino alla ripresa della scuola, il 5 ottobre. Morosolo era un paesino di centoventi anime, venivamo a salutare un compagno di scuola e a comprare i “perseghett” dai contadini”.
Era nato in piazza Belgioioso a Milano. Il padre Arturo (1888-1970), agente di cambio, aveva a sua volta presieduto la Borsa negli anni terribili 1941-1944 e di nuovo nel 1949. E per diciassette anni era stato presidente della Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Vi andava in bicicletta portandosi in canna Urbano ragazzino. L’istituto ospitava numerose persone che non erano ammalate. Erano ebrei e ricercati per motivi politici che rischiavano di essere rinchiusi a S. Vittore o di finire nelle “condotte” che partivano per i campi di sterminio nazisti. Si salvarono invece con l’appoggio del cardinale Schuster. I carabinieri della stazione locale lo sapevano e chiudevano un occhio.
Antifascista fin da bambino, aveva assistito all’irruzione delle camicie nere nella sua casa perché Mussolini voleva tenere un discorso dal balcone. Allora Urbano sognava di diventare veterinario e fu un sacerdote amico dei genitori, vicepreside al liceo Beccaria, a consigliargli di continuare la tradizione di famiglia: “Abitavamo in via della Spiga in quello che oggi è il centro del quadrilatero della moda ma che allora era un dedalo di viuzze romantiche della vecchia Milano. Al mattino passavano strillando a gran voce, per richiamare l’attenzione delle massaie, il molèta che affilava le lame dei coltelli e il rivenditore con il bidone di ferro e il mestolo per scodellare il latte. In casa c’era disciplina, alle 19.45 tutti a tavola senza sgarrare”.
Si laureò nel 1945 in economia e commercio all’Università Cattolica con Amintore Fanfani presidente della commissione d’esame. A 25 anni si sposò con Anna Montano che aveva conosciuto quando era sfollata in una villa sul colle dei Miogni a Varese e che è morta nel 2008. Si erano fidanzati quando lei aveva quindici anni e lui diciassette (sono stati sposati 63 anni più sette di fidanzamento). Il fratello Ernesto era studente d’ingegneria e abbandonò gli studi per fare la Resistenza col nome di Tenente Popi. Comandava una brigata nell’Ossola e finita la guerra divenne industriale della gomma. L’altro fratello Gianfranco lavorava nel tessile a Busto Arsizio.
Al periodo bellico risale un episodio drammatico della sua vita. Aletti aveva un caro amico d’infanzia, Giancarlo Puecher Passavalli, figlio di un notaio di via Broletto, compagno di banco fin dai tempi della scuola elementare. Per cinque anni, studiarono dai gesuiti al Leone XIII, ginnasio e liceo. Giancarlo s’iscrisse a giurisprudenza alla Statale e Urbano scelse economia alla Cattolica. Vennero il 25 luglio e poi l’8 settembre. Urbano fu arruolato nel reggimento ex Savoia Cavalleria della caserma Garibaldi di Varese, l’amico Puecher invece, aviatore, si diede alla clandestinità, voleva fare il partigiano.
“Devo essere sincero – confessava il banchiere – mi sarebbe piaciuto seguirlo in quell’avventurosa scelta di vita, anche solo per distribuire i volantini antifascisti nei quartieri di Milano. Ma Giancarlo non me ne diede il tempo. Fu catturato e fucilato a Erba il 23 dicembre 1943. Aveva vent’anni e alla fine del conflitto fu decorato con la medaglia d’oro”. Dopo la guerra Urbano rilevò gli uffici del padre in via Monte di Pietà e riassunse la vecchia segretaria del nonno Giovanni. Andava tutti i giorni nei caveaux della Banca Commerciale in piazza della Scala a prelevare e depositare i titoli nelle cassette di sicurezza.
Si concentrò sul lavoro, sulla famiglia (l’adorata moglie Anna e sei figli) e su un intensa attività filantropica, nel segno del solidarismo laico di fine ‘800: quando a Milano, primo caso in Italia, era nata l’associazione dei proprietari immobiliari che rappresentava una parte consistente dell’alta borghesia cittadina. Il gruppo guidato da Prospero Moisè Loria, fondatore dell’Umanitaria, si era impegnato a costruire quartieri operai come modelli funzionali di abitazione, sani e decorosi. Le prime case popolari sorsero ai primi del ‘900 in via Solari e in viale Lombardia, esempi di promozione sociale e stimolo alla solidarietà.
Così, per tutta la sua lunga vita, Aletti si è proposto di fare del bene. È stato socio della Fondazione Moneta-Sacra Famiglia di Cesano Boscone per l’assistenza alle persone fragili, promotore della Vidas che si occupa dei malati inguaribili, socio attivo della fondazione culturale Nova Spes, consigliere della fondazione Marcello Candia (l’industriale lombardo che negli anni ‘60 si trasferì in Brasile per assistere i più deboli). E contribuì all’istituzione in Uganda di una sede dell’Università Cattolica. Diceva: “Vorrei che i giovani ugandesi che oggi vi studiano diventassero gli insegnanti di domani”. Sul piano professionale fondò con Nino Andreatta, Umberto Agnelli e Francesco Merloni il centro studi finanziari Arel di cui fu tesoriere.
Fu l’artefice soprattutto, a partire dal 2001, della nascita del Villaggio Barona a Milano, oltre 43 mila mq di strutture residenziali per chi non ha casa, primo esperimento di housing sociale in Italia che coinvolge Comune, arcivescovato, università e mondo imprenditoriale milanese. Il Villaggio sorge su un’ex area industriale messa a disposizione dal benefattore Attilio Cassoni e dalla moglie Teresa. Ospita un’ottantina di appartamenti in affitto a prezzi agevolati. Ci vivono trecento persone tra anziani, extracomunitari, rifugiati politici, individui con disagi fisici e psichici lievi, ex tossicodipendenti, ragazze madri, giovani coppie e famiglie in difficoltà per la perdita del lavoro.
Tutti protagonisti di un progetto comune che Giorgio Gaber definirebbe “partecipazione”. Il Villaggio ha un pensionato sociale da centoventi posti letto, mensa, biblioteca, sala riunioni, negozi, bar-ristorante aperto al quartiere, laboratori artigianali, un micro-nido per bambini fino a tre anni e il parco di 22mila mq. Una realtà unica in Italia. Non un ghetto dove si concentrano persone disagiate in un unico spazio. L’esperimento si fonda su un rivoluzionario concetto di coabitazione integrato nel rione. La parola d’ordine è tutti aiutano tutti. Ciascuno contribuisce come può alle esigenze collettive. Come avveniva nelle case-ringhiera della vecchia Milano cantata da Nanni Svampa e dai Gufi.
A Morosolo, infine, Urbano Aletti acquistò nel 1958 la villa dove aveva soggiornato Alessandro Manzoni ospite del figliastro Stefano Stampa. La villa – 960 mq su una tenuta di otto ettari con il parco e il paddock per i cavalli – apparteneva al Comune che vi aveva sistemato alla bell’e meglio un centinaio di persone. Per recuperarla i muratori lavorarono due anni con l’architetto Luigi Caccia Dominioni. Non c’erano la fogna né l’impianto di riscaldamento. Furono abbattuti i muri che non erano originali e fu ricavata la stanza del vescovo che forse ispirò Piero Chiara. Lo scrittore fu infatti ospite di Aletti proprio in quei giorni con una sua amica macellaia. Di tasca sua il banchiere fece allacciare le tubature all’acquedotto di Casciago portando l’acqua in paese. Oggi Morosolo ha 1200 abitanti che utilizzano ancora quei condotti.
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