Il 6 dicembre 2005, David Cameron viene eletto leader dei Tories. Comincia così una favola politica che sembra scritta da Esopo, destinata forse, lo scopriremo presto, alle pagine dei libri di storia.
A seguito delle elezioni generali del 2005, vinte per la terza volta consecutiva da Blair, Michael Howard si dimette dalla segreteria del Partito Conservatore. Al suo posto viene scelto Cameron, un nome ancora semi-sconosciuto in Europa. Inizia così l’ascesa che lo porterà a Downing Street, grazie alla netta vittoria sulla concorrenza alle elezioni generali del 2010. Ha 44 anni ed è uno dei primi ministri britannici più giovani della storia moderna.
La svolta inaspettata arriva nel gennaio 2013. L’euroscetticismo sta prendendo vigore in tutta Europa; nel Regno Unito, Nigel Farage rosicchia il consenso di Cameron con il partito indipendentista e la frangia antieuropea del Partito Conservatore è sempre più pressante. Cameron sceglie di giocare d’anticipo: dichiara pubblicamente di volersi impegnare per rimodulare la presenza del Regno Unito in Europa e, in caso di rielezione, di indire un referendum sulla permanenza del Regno nell’Unione, suscitando sbigottimento e irritazione oltremanica.
Una mossa azzardata, ma fruttuosa: il 7 maggio 2015, Cameron viene riconfermato primo ministro dagli elettori e diventa il secondo conservatore nella storia del Regno Unito a vincere le elezioni per due volte consecutive; prima di lui solo Margaret Thatcher.
La mattina dell’otto maggio, il primo ministro si sveglia nel letto della sua casa a Londra; la testa appesantita dai postumi dei festeggiamenti. Scosta la tenda, sbircia distrattamente dalla finestra. La sua preoccupazione è tutta concentrata in un’unica parola: referendum.
Lo ribadisce subito ai microfoni: il referendum si farà, ma perlomeno non prima di aver concluso la sua campagna di riforma dei rapporti con l’Unione; e in effetti ottiene qualche successo. Il referendum del dentro o fuori l’Europa diventa, nella narrazione del primo ministro, quello del dentro o fuori l’Europa riformata, con Cameron in prima linea per il remain. Ma è tutto inutile. Cameron ha gettato troppa benzina sul fuoco della diffidenza, tipicamente britannica, nei confronti del continente. Il 23 giugno 2016, il 51,89% del popolo di Sua Maestà decide di abbandonare l’Unione Europea; il giorno seguente, David Cameron si dimette. Il resto è storia.
La settimana prossima, il Regno Unito andrà a elezioni per la terza volta in quattro anni e il voto rappresenta un referendum bis; il 31 gennaio, termine ultimo per un accordo con l’UE, incombe inamovibile sugli elettori e lady Brexit attende di scoprire se il gentleman che ne uscirà vincitore la inviterà per un valzer o le rifilerà un due di picche.
Che ne è stato di David Cameron in questi tre anni?
«Ci penso ogni singolo giorno: al referendum, alla sconfitta, alle conseguenze, e alle cose che si potevano fare diversamente. Sono preoccupatissimo per quello che succederà», ha dichiarato in un’intervista al Times di pochi mesi fa. Non è difficile comprendere le ragioni di tali rimorsi: forse era destino che la presenza del Regno Unito in Europa sfociasse, prima o poi, in un referendum; non lo sapremo mai, ma è stato lui a spingere questa biglia verso il piano inclinato.
Parlare alla pancia degli elettori è rischioso, servono acume e prudenza. Si risvegliano forze imprevedibili e inaspettate e se qualcuno decide di cavalcarle per andare chissà dove, può succedere davvero di tutto. Chiedete a Cameron.
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