C’è chi al Ramadan digiuna durante il giorno, c’è chi in Quaresima evita di mangiare carne, chi prepara le “zeppole” di San Giuseppe e chi prepara il banchetto delle erbe amare, dell’agnello pasquale e del pane azzimo… Soprattutto in questo periodo dell’anno, icona dell’inizio di un nuovo ciclo stagionale, sono tante le sfaccettature del rapporto simbolico che lega l’uomo al cibo nelle varie culture e religioni. Soffermiamoci un momento a interrogarci sul tema dei pasti legati alle ricorrenze religiose, potremo scorgervi con maggiore consapevolezza un significato straordinario: la “sacralità” del cibo.
Tutto avviene sin dalla notte dei tempi: gli antropologi collocano la nascita delle prime forme di comunità sociale scavando a ritroso nella primordiale consuetudine dei primi ominidi di riunirsi intorno al fuoco. I primi rozzi gesti di condivisione col gruppo, avvenuti quando il linguaggio ancora non esisteva, erano incentrati sulla spartizione del cibo: attraverso una soluzione collettiva al bisogno primario di nutrimento dei singoli, la comunità prevalse sull’individualismo, favorendo la specie umana nel suo evolvere e progredire attraverso i millenni.
Sacralità, intesa come espressione della relazione intima tra i partecipanti al convivio nel dì di festa: la tavola imbandita rappresenta una alleanza che suggella i rapporti umani, un patto che li rinsalda e ne scandisce costanza e regolarità. In molte comunità religiose il banchetto accomuna gli adepti nella celebrazione dei rituali previsti. Ma com’è che il nutrimento diviene evocazione di un qualcosa di trascendente? Attraverso il cibo, carni, crude principalmente, ma anche speciali varietà di erbe, verdure o frutta, o particolari preparazioni, l’uomo sente di acquisire un vigore nuovo, che sembra provenire da un altro mondo. Assume “integratori” che lo proteggono e lo fortificano nelle difficoltà; fatte le debite differenze ciò avviene anche nelle situazioni sociali più estreme, dalle ultime tribù di cannibali che mangiano il fegato o il cuore del nemico, agli sportivi della nostra modernissima società…
Il collegamento tra alimenti e rituali nutrizionali ricorre frequentemente nella simbologia mistica di tutti i tempi. Latte innanzitutto: l’allattamento è gesto fondamentale per la vita, simbolo dell’unione più profonda possibile tra due esseri viventi, non solo nutrimento ma anche forma di conoscenza dell’altro. Pane (oltre a manna e quaglie! giacché non di solo pane vive l’uomo ma di tutte le cose che escono dalla bocca di Jahvè), e vino e olio: suggeriscono la transustanziazione dell’Assoluto, ma nascono dalla potenzialità tecnica e produttiva dell’uomo, nel trasformare i prodotti della terra in alimenti che possono essere conservati per goderne appieno anche in tempo di scarsità.
Le primissime origini del nostro stile di vita di popoli mediterranei sono state documentate dall’Unesco che ha attribuito alla dieta mediterranea il riconoscimento di “patrimonio culturale immateriale dell’umanità” (novembre 2010). Siamo legati da tradizioni comuni che si riscontrano in tutta l’area geografica, e che sono diventate parte integrante del nostro DNA. Prendiamo l’esempio delle antiche tribù berbere: un modo di intendere il cibo fatto di rispetto per la tradizione e conoscenza dei prodotti del territorio. Il convivio berbero rifletteva una precisa distribuzione delle competenze e riconosceva ai familiari ruoli ben precisi: gli uomini si occupavano della sicurezza del nucleo familiare procurando cibi freschi, coltivandoli oppure acquistandoli al mercato (non abbiamo inventato nulla parlando al giorno d’oggi di bio e di km. zero!). Sceglievano accuratamente gli alimenti in funzione della qualità: verdure prodotte localmente, erbe, legumi, spezie, olio, cereali e poche carni bianche. Le donne mettevano in campo una speciale competenza di cucina, esclusiva, tramandata di madre in figlia da generazioni. Preparavano i pasti, apparecchiavano il banchetto, unico piatto comune a quale accedevano tutti i commensali, con preciso ordine – prima si servivano gli amici e gli ospiti poi gli uomini, poi le donne, poi i bambini e infine i domestici. Si mangiava il giusto e, anche se si preparava con abbondanza, alla fine nulla andava sprecato perché il cibo avanzato veniva dato ai poveri, vicini alla famiglia.
L’avere proposto il tema del “cibo per il pianeta” ha fatto la fortuna della scelta milanese di Expo 2015. I cittadini del pianeta devono essere sensibilizzati ad una vera rivoluzione culturale: capire che le scelte alimentari di tutti giorni determinano per mezzo mondo troppo poca disponibilità di cibo e per l’altro mezzo mondo, ammalato di benessere, l’incremento di incidenza di malattie degenerative correlate a non corretti stili di vita. Prediligere un cibo particolare (magari ingannati dal marketing che ci bombarda attraverso la televisione) può innescare pericolosi meccanismi su scala planetaria: per corrispondere alla richiesta sempre crescente di un determinato cibo si strutturano coltivazioni o allevamenti intensivi, si trasferiscono prodotti in ogni parte del mondo in barba alla stagionalità o ai costi del trasporto, si eliminano le varietà poco conosciute e che rendono meno, si abbandonano le coltivazioni tradizionali. In poche parole si distrugge a poco a poco la ricchezza che sta nella diversità dei territori: si distruggono culture…
Se non abbiamo il tempo di farlo tutti giorni almeno in occasione della Domenica delle Palme, di Pasqua o di Pasquetta, siamo tutti invitati a considerare che metteremo nel piatto un significato ben più profondo che non un semplice pranzo: un valore antico e sacro, simbolo di vita e vera comunione con gli altri, nutrimento anche per l’anima.
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