Gli alunni della quarta della “Cairoli”, la scuola elementare di Biumo Inferiore, erano quaranta, tutti maschi con il grembiule nero e il colletto bianco. Quel giorno il maestro (un maschio come la maggior parte dei maestri di quella scuola) aveva messo in fila per due i bambini e si era incamminato verso il viale. Nella notte era scesa la neve, non molta a dire la verità. Percorsa la via Ortello, che costeggiava la ferrovia verso Porto Ceresio, la colonna di bambini perfettamente allineata aveva imboccato sulla destra la via Brunico. Metà dei bambini la chiamava via Brùnico, con l’accento sulla u, e metà la pronunciava Brunìco, con l’accento sulla i. E le due pronunce convivevano, nella zona e tra gli stessi abitanti, senza alcun imbarazzo.
I bambini, con i loro paltò e i cappelli con le ali abbassate sulle orecchie, procedevano in silenzio, evitando se possibile le pozzanghere. A metà via Brunico, a sinistra, l’ingresso al parco Molina, chiuso e riservato, che precedeva la villa sul fondo. Nel parco un gruppo di case coloniche e una attività agricola, qualche animale nelle stalle silenziose in questo inverno neppure troppo freddo. L’attività agricola era organizzata e gestita dal signor Pigionatti, nonno di un alunno di quella quarta della scuola Cairoli.
E proprio lui, il signor Pigionatti, aveva ricevuto l’incarico dalla nobildonna Lisetta Tola Doria Molina, donna di profonda fede e di grandi silenzi, di allestire forse il primo dormitorio di Varese per i “senza tetto”. Erano le vecchie scuderie, quelle, ed era stata allineata una ventina di letti completi di materassi e coperte, con un pasto caldo e la possibilità di lavarsi. Qui trovavano un primo riparo d’inverno quelli che allora si chiamavano solamente “ i barboni”. Non erano ancora gli emarginati dei decenni successivi, gli scarti delle emigrazioni o delle droghe. Erano quasi sempre solo anziani (o parevano tali), spesso alcolizzati, in una deriva dolorosa.
Ecco, il maestro di quella quarta elementare voleva che i bambini “vedessero i barboni”, che sapessero che esistevano, che “ci appartenevano”, che erano lì vicino alle case, che non erano “corpi estranei”, che avevano l’età e i capelli dei loro nonni. Non faceva alcun discorso, quel maestro, nessuna retorica. Rispondeva solo alle domande dei bambini, e di domande i bambini ne facevano tante.
Poi, tornando, si raccoglievano foglie, che sarebbero state pulite, studiate, analizzate, conosciute e infine incollate su grandi fogli bianchi. Nel ritorno ogni albero veniva guardato come un libro aperto, pagina dopo pagina, e sarebbe stato poi confrontato con i mutamenti della stagione successiva. Ma tutto questo veniva dopo, dopo i “barboni”, perché diventasse normale non avere dubbi sulle priorità.
Era un maestro strano, quello di quella quarta elementare. O meglio, più che strano era un maestro che guardava fuori, che usciva dalle aule. Quando il tempo lo permetteva, portava i bambini a conoscere quello che stava attorno. E così un giorno andava al monumento a Garibaldi, con l’attenzione soprattutto ai nomi incisi sulla lapide, letti uno per uno perché erano persone, quelle, erano uomini come tutti i loro padri. E poi la chiesa parrocchiale, con i suoi quadri, e la chiesa della Madonnina in prato, con i suoi affreschi. E poi il Castello di Belforte, con la storia del Barbarossa. E il Lazzaretto, con la sua vicenda di ossa e di peste. E l’oratorio, che era il palazzo Litta Modignani e avanti così.
I bambini di quella quarta sapevano tutto di Garibaldi, che qui aveva combattuto una battaglia per un obbiettivo patriottico di cui in quei tempi nessuno si sarebbe mai sognato di discutere. E sapevano tutto quello che era giusto sapere di Carlo Carcano, Domenico Adamoli, Giuseppe Vincenzo Walder, Emma Macchi Zonda, Ulisse Merini, Rinaldo Arconati, Luigi Tito Molina, Nuccia Casula e di tutti gli altri a cui erano state dedicate delle vie in zona. Così come sapevano bene perché fossero state intitolate vie a Podgora, Monte Zebio, Monte Canin, Coni Zugna, Tonale, Quarnero, Calatafimi e altre località.
Bisognava partire da tutto quello che ci sta vicino, diceva sempre, dentro e fuori di noi. Bisogna essere curiosi, farsi domande e andare a cercare le risposte. Ogni casa, ogni strada, ogni albero, ogni uomo racconta una storia, diceva sempre.
Ma soprattutto alle storie delle famiglie dei bambini era interessato. Non erano ancora gli anni delle grandi immigrazioni, ma erano già arrivati i mantovani, i veneti, i friulani e nascevano le prime domande a questo proposito in una società in cui uno di Valle Olona si sentiva già un po’ diverso da uno di Biumo o di Belforte. In classe i veneti avevano difficoltà con le doppie. I friulani sembrano tutti fratelli maggiori, ragazzi delle medie, e facevano una gran fatica a stare fermi nei banchi. Il maestro voleva conoscere le storie e questo permetteva di capire, di cogliere ed eventualmente di intervenire se era necessario intervenire.
La sua chiave di lettura erano i temi, ne assegnava molti. E ad un certo punto aveva avuto un’idea inconsueta: aveva obbligato i bambini a scrivere temi di almeno cinque pagine. Non importava che ci fossero ripetizioni, banalità o altro, diceva. Fingeva di non vedere che alcuni scrivevano più largo per occupare più spazio. Incoraggiava i dubbiosi, aiutava chi si scoraggiava. Era presente in modo materno, direi, ma voleva che i bambini facessero sforzi, faticassero per scavare nei pensieri e nelle emozioni. La lunghezza imposta nascondeva l’obbligo di ricerca di un altro pensiero, di un’altra idea, senza accontentarsi della prima frase. C’era sempre la possibilità di un pensiero successivo.
Oggi tutto questo, sia i “barboni” che la lunghezza del tema, avrebbe provocato reazioni vivaci da parte dei genitori, con richiesta di intervento da parte “di chi di dovere”. Sarebbe stato giudicato un sopruso, una violenza.
Ma quelli erano altri tempi. E forse anche altri maestri.
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