L’istituzione, circa un mese fa, della commissione parlamentare contro l’antisemitismo e l’odio razziale di cui la senatrice Liliana Segre è stata prima firmataria, necessita ancora di qualche approfondimento e di riflessione, nonostante i commenti già numerosi e autorevoli espressi nei giorni a seguire.
All’ormai anziana senatrice Segre, che porta nella sua storia e impressi nella sua carne i segni di una persecuzione tragica e del tutto gratuita, in quanto di famiglia ebrea, sembrava che una tale iniziativa avrebbe ottenuto nel Senato un’adesione unitaria, totale, “senza se e senza ma”, come si usa dire. Invece non è stato così. L’iniziativa è parsa a molti una mossa strumentale di parte politica, sicché le attuali forze di opposizione – il centrodestra, anzi la destra – non l’hanno approvata, esprimendo un’astensione dai toni anche polemici.
Non è una novità. Nelle motivazioni della commissione, che tuttavia non è dotata di provvedimenti sanzionatori, s’è voluto intravedere uno sdegno unilaterale. Cioè la proclamazione della condanna di un odio che proverrebbe “da una parte sola”, e non è un caso che il leader politico della Lega, e dell’astensione, Matteo Salvini, qualche giorno più tardi e alla notizia che la senatrice Segre era stata messa sotto scorta per le molte minacce antisemitiche giuntele via social o in altro modo, si sia paragonato a lei, essendo anch’egli minacciato di continuo. Come a dire: anche l’odio nei miei confronti è pari al tuo. Dimenticando – cosa espressa un po’ da tutti i commentatori – che il leader dell’opposizione politica, in un Paese, viene minacciato o insultato per quanto dice o annuncia di fare, mentre sulla senatrice Liliana Segre le minacce cadono, continuano a cadere, per quello che ella è e che rappresenta, per la sua condizione umana, per la sua fede religiosa.
Queste distinzioni non sono una novità, s’è detto, perché emersero, sebbene con prospettive opposte, una ventina di anni fa, quando fu proclamata la “giornata della Memoria”, da celebrare il 27 gennaio di ogni anno nel giorno dell’apertura dei “cancelli” di Auschwitz da parte dell’Armata rossa. Vi fu chi, proprio tra gli ebrei, vi vide un limite e un ammonimento, il richiamo perenne di una delle vicende più tragiche e sconvolgenti dell’umanità – nel cuore della civilissima Europa –, quasi a far sì che la Memoria non si spegnesse con la scomparsa degli ultimi testimoni viventi e sotto la spinta di ondate negazionistiche, descritte da sedicenti storici.
Ma in un altro senso si volle vedere in questa Memoria un illiberale “obbligo di Stato”, tant’è che dinanzi all’olocausto ebraico molti si sentirono autorizzati a istituire e a ricordare il proprio, in una sorta di gara della tragedia e della morte. Da noi, in Italia, non a caso venne istituita, un paio di settimane dopo la celebrazione della Memoria della liberazione del campo di Auschwitz, la “giornata della Memoria delle vittime delle foibe”, gli italiani assassinati ai confini con l’ex Jugoslavia dai miliziani di Tito negli ultimi mesi e negli strascichi della Seconda guerra mondiale.
Il concetto “prima gli italiani” ha molta presa nell’immaginario collettivo e nella percezione, ma nello stesso tempo crea presupposti di egoismo e forse mina alla radice la solidarietà umana che dovrebbe essere patrimonio comune e non di singoli popoli o nazioni.
Sulla spinta dell’istituzione della “commissione Segre”, e probabilmente anche per rimediare a una mancanza di rispetto alla senatrice divenuta la rappresentante vivente di una tragedia dell’umanità, da tutti riconosciuta, in molte città italiane (non in tutte, perché in taluni casi sulla ragione ha prevalso purtroppo la partigianeria politica) si è proceduto a insignire la stessa senatrice Liliana Segre della cittadinanza onoraria. Anche a Varese. E con espressione unanime, cosa che ha reso onore al personaggio e pure al civico consesso.
Se quest’evento “amministrativo” merita l’indiscriminata approvazione, si deve anche sottolineare il risarcimento morale dovuto da Varese e dal Varesotto a Liliana Segre, sulle cui montagne ai confini della Svizzera, settantacinque anni fa, fu arrestata dai nazifascisti. Così come accadde all’allora giovane Agata (Goti) Herskovits Bauer, milanese, oggi novantacinquenne. La signora Bauer fu catturata a Cremenaga mentre cercava di espatriare con la famiglia in Svizzera, tradita da quei “passatori” – esistiti purtroppo – che si facevano pagare i loro “servizi” dalle famiglie ebraiche ma anche dalla Gestapo, cui le consegnavano nottetempo.
Solo se queste storie diventano motivo di assennatezza e di lungimiranza (meglio se silenziose), indipendentemente da ogni critica “strumentale” ideologica e partitica, la Memoria può avere un significato importante.
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