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Società

STORIE DI PRETI

MANIGLIO BOTTI - 22/11/2019

Seminaristi in barca negli anni '50

Seminaristi in barca negli anni ’50

C’è una strofa nella canzone Azzurro, quella sorta di inno popolare degli ultimi cinquant’anni, che rende bene l’idea dell’argomento: “Sembra quand’ero all’oratorio / Con tanto sole, tanti anni fa / Quelle domeniche da solo / In un cortile, a passeggiar / Ora mi annoio più di allora / Neanche un prete per chiacchierar…”.

Neanche un prete, dunque, all’oratorio per di più. È presumibile tuttavia – guardando all’epoca cui si riferisce la canzone, fine anni Quaranta, inizio dei Cinquanta, e stando all’età degli autori, il maestro Vito Pallavicini, Paolo Conte e anche il cantante che portò Azzurro al grande successo nazionale, Adriano Celentano – che il prete fosse in giro: se non all’oratorio, magari in chiesa a recitare l’ufficio o a insegnare la “dottrina” agli altri ragazzi o forse anche a fare una pennichella, in un giorno d’estate, caldo, con tanto sole…

Anche chi scrive, ragazzino a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, può certificare che in quegli anni gli oratori straripavano: cento, centocinquanta ragazzi come minimo ogni domenica e spesso anche nei giorni feriali, tutti appartenenti alla cosiddetta generazione dei “baby boomers”, come vengono definiti i nati dal 1945 al 1965, gli anni del boom economico e demografico. E c’erano anche i preti che in mezzo a quelle folte tribù di giovanissimi erano come dei “capi indiani”, era quasi impossibile sentirsi soli. Sono condizioni che i ragazzi di oggi: i Millennials, cioè i nati negli anni Ottanta del Novecento, e quelli della Generazione Z, i nati dal 1995 in poi, non hanno potuto né possono conoscere e immaginare.

Il prete era una guida, una presenza costante. Ricordo ancora e bene nome e figura del sacerdote che mi accompagnò negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza: don Michele Nolli, che concluse poi la sua “carriera” come parroco di Crenna, un rione di Gallarate.

C’erano i preti, diciamo a sufficienza se non abbastanza – un parroco e un coadiutore, e talvolta anche più di uno –, in ogni piccolo paese della diocesi, sotto ogni campanile.

I seminari rigurgitavano di ragazzi. Non si dovrebbe rammentare, visti i tempi di oggi più seri e… speciosi, ma in quegli anni lontani del dopoguerra i “reclutamenti” venivano effettuati nelle scuole primarie, passate al setaccio dai sacerdoti secolari, tipo i rastrellamenti nelle città di mare della marineria inglese del XVIII secolo. Non è che in quegli anni si scialasse. E perciò accadeva di frequente che alcuni ragazzi, qualche volta i più discoli e refrattari alla disciplina, spinti dalle famiglie, venissero accolti nei seminari, dove almeno avevano garantiti cibo, alloggio e soprattutto una degna istruzione.

Anche il seminario minore di San Martino di Masnago, chiuso da anni e oggi sede di alcuni uffici tecnici del Comune, era affollato. Tra scuole elementari e medie si sfiorava la presenza di duecento giovani. Di prestigio e in carriera gli insegnanti: don Adriano Caprioli, che poi sarebbe diventato vescovo di Reggio Emilia; don Dionigi Tettamanzi, poi vescovo, cardinale a Genova e infine cardinale arcivescovo a Milano.

Certo, non tutti i ragazzi avviati a studi preparatori del sacerdozio sarebbero arrivati alla fine del percorso, diciamo solo un quindici per cento, forse anche meno. Ma è innegabile – lo si ricordava di recente parlando delle comunità pastorali istituite di fatto per sopperire alla mancanza di preti e inglobando le parrocchie – che, fino a qualche tempo fa, si contavano ancora nel centinaio i preti novelli consacrati nella diocesi milanese. Oggi, spesso, non si arriva alla ventina, e molti di essi non sono giovani ma persone che arrivano all’incarico presbiterale in età adulta.

C’è la crisi delle vocazioni – non entriamo nel merito del grave problema che assilla la Chiesa – ma c’è anche una crisi di presenze dei fedeli. Quindi, la penuria delle nascite, e anche un diverso modo di vivere la socialità, cristiana e no, e dunque si svuotano gli oratori, sui quali spesso ci si interroga anche riguardo l’utilizzo di edifici che stanno per divenire fatiscenti a causa del mancato uso.

Si aggiunga anche un mutato indirizzo nella “gestione” dei preti nella guida delle parrocchie o delle comunità pastorali. Succede, e ci si perdoni il paragone, che gli avvicendamenti assomiglino a quanto capita nelle organizzazioni militari, dove gli ufficiali sono sempre più destinati al turn over: un periodo di due anni in sedi di comando e altrettanti trascorsi sul campo in reparti operativi.

Non entriamo, anche in questo caso, nei dettagli della gestione. Sono scelte: si punta con ogni probabilità a un uso più proficuo dell’esperienza, senza creare legami sempre più difficili da rescindere nel tempo con persone e territori.

Sono soltanto constatazioni. Ci è ricomparso tra le mani, poche settimane fa, un libriccino che scrisse la giornalista e insegnante varesina Federica Lucchini: “Una presenza ancora viva a Bardello”. Vi si tratta, appunto, della presenza nel paese lacustre di don Alfredo Camera, che vi arrivò nel 1915 e vi rimase, sempre con la carica di parroco, fino al 1962, quando ascese alla gloria del Signore. Fu più di una presenza, fu una storia di vita passata tra due guerre che vide partecipe un intero paese.

Un altro esempio. Ci è stato dato il privilegio di conoscere, anni fa, don Claudio Citterio. Era arrivato a Besano in Valceresio, ai confini con la Svizzera, subito a conclusione della seconda guerra mondiale, come coadiutore, a dare una mano al parroco dell’epoca, che tra l’altro era stato addirittura coinvolto in vicende di faide tra partigiani e repubblichini con conseguenti sparatorie.

Don Claudio è rimasto parroco della chiesa di San Giovanni con un occhio rivolto alla collina, dove si erge il santuario di San Martino, che egli stesso aveva contribuito a rimettere in sesto, riaprendolo decorosamente al culto, per più di mezzo secolo. Fino a identificarsi, come presenza, nel borgo e nel bacino di lago su cui si aprono Morcote, in Svizzera, e Porto Ceresio in Italia.

A chi gli domandava – ormai più che ottantenne, rimasto a vivere solo nella piccola canonica – se non si sentisse un po’ stanco, rispondeva: No, qui sto bene, con il mio San Giovannino. L’ho detto anche al mio arcivescovo, Dionigi, che è brianzolo di Renate, come me… Lo ricordo bimbo al catechismo; un mio allievo.

Don Claudio se n’è andato nell’autunno di dodici anni fa. Riposa tra i suoi parrocchiani nel cimitero di Besano.

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