Antonio Gramsci morì il 27 aprile 1937 in una clinica di Formia dove era stato trasferito dal carcere a causa delle sue gravissime condizioni di salute. Il regime fascista, con la sua morte, portava a termine solo in parte l’infame proposito di “impedire a quel cervello di funzionare per venti anni”, come aveva detto il pubblico ministero Michele Isgrò al processo.
Se il fascismo, condannando Gramsci a venti anni quattro mesi e cinque giorni di reclusione, era riuscito a togliergli la libertà di parola e di movimento, rinchiudendolo in vari carceri, non era riuscito però, come pensava il pubblico ministero a impedire al cervello di Gramsci di pensare. Sorvegliato speciale, in quanto dirigente comunista, venne sistemato intenzionalmente, per impedirgli di riposare, in una cella rumorosa accanto al corpo di guardia. Nonostante ciò durante il giorno leggeva tutto quello che gli capitava tra le mani; ma con il passar del tempo si rese subito conto che le dure condizioni di restrizione, l’isolamento e la difficoltà di comunicazione con l’esterno turbavano i suoi lunghi giorni di prigionia. Era sempre più assillato da domande alle quali non trovava risposte: sui rapporti con i suoi cari, con il partito e con l’Internazionale comunista.
Eppure non voleva venir meno all’impegno di studio che si era proposto. Comprese che la scrittura e la lettura erano qualcosa di necessario alla vita, che potevano essere impiegate quali tecniche di sopravvivenza e pensò di incominciare ad elaborare tutta una serie di riflessioni, che saranno poi contenute poi nei cosiddetti Quaderni del carcere.
Benedetto Croce, all’indomani della prima uscita editoriale delle Lettere
dal carcere, disse che l’opera di Gramsci “appartiene anche a chi è di altro o opposto partito politico”. Le sue opere oggi sono tradotte in tutte le lingue più diffuse e studiate in varie parti del mondo, con sempre rinnovato interesse.
Sorge a questo punto un quesito: di che utilità può essere per un giovane del Terzo Millennio ricordare e riflettere sul suo pensiero, oggi nel settantacinquesimo anniversario della sua scomparsa, in un mondo globalizzato, multietnico e multiculturale, percorso da divergenti forme di comunicazioni? Secondo quanto ha scritto, il professor Massimiliano Biscuso, nel Giornale di filosofia, “commemorare Antonio Gramsci significa inevitabilmente misurarsi con la questione della sua ‘attualità’. Ma valutare l’attualità di un pensatore è questione niente affatto banale: non si tratta, infatti, di rivendicare a Gramsci la capacità di ‘anticipare’ o ‘precorrere’ il proprio tempo grazie alla sua perspicacia, capacità tanto care a un vecchio, ma mai veramente morto, cattivo storicismo. Si tratta, invece, di comprendere l’utilizzabilità di un metodo di ricerca e la permanenza dell’oggetto di studio: quale capacità di lettura del mondo acquisiamo leggendo Gramsci? e in quale misura il nostro ‘oggi’ è ancora l’”oggi” che fu il suo?
In fondo la questione dell’attualità della propria ricerca è presente a Gramsci fin dalla gestazione dei Quaderni del carcere. In una notissima lettera del 13 marzo 1927 Gramsci, prigioniero nelle carceri fasciste e consapevole che tale condizione non sarebbe mutata per molto tempo, comunica a Tania l’intenzione di iniziare una serie di ricerche che lo occupino ‘intensamente e sistematicamente’, assorbendo e centralizzando la sua ‘vita interiore’. Si tratta, precisa Gramsci, di ‘far qualcosa für ewig,’ di lavorare ‘da un punto di vista disinteressato.’ Scrivere ‘für ewig’ (per sempre, per l’eternità) significa non esaurire la funzione della scrittura nella immediata contingenza della lotta politica, ma affrontare con tutta l’ampiezza concessa dalle condizioni della vita carceraria – certo non molta – e con la radicalità necessaria gli argomenti di maggior interesse per intendere il presente; essere ‘disinteressato’ non significa affatto rivendicare un’astratta neutralità alla ricerca, ma assumere un atteggiamento scientifico nell’analisi, senza aderire a punti di vista preconcetti, fare proprio un abito ‘spinoziano’ teso alla comprensione intellettuale piuttosto che alla condanna, alla irrisione o alla invettiva moralistica”.
Ho voluto riportare questo significativo e non breve passo del 2007, del professor Biscuso, perché restituisce a pieno e con rigore il senso dell’attualità di Gramsci in una fase politica come questa nella quale si stanno riproponendo nel dibattito vecchie polemiche e distorte interpretazioni su non pochi atti e/o tesi del pensatore sardo.
Antonio Gramsci seppe guardare il proprio tragico mondo alla luce di una chiara visione ideale e seguendo un rigore etico sicuramente incontestabile. Cinque anni fa, nel settantesimo anniversario della sua morte, vi sono state manifestazioni in Italia e all’estero e alla presenza del Presidente Napolitano è stato presentato il primo volume della edizione nazionale dei suoi scritti. Il 27 e 28 aprile, a Roma, si è svolto il convegno internazionale: “Gramsci, la cultura e il mondo”con la presenza di storici e politologi europei, statunitensi, latinoamericani, cinesi, indiani e del mondo arabo. Vi sono state anche importanti celebrazioni che hanno avuto una dimensione internazionale con eventi e manifestazioni culturali promossi dall’Istituto Gramsci a Berkeley, Pechino, Mosca, Buenos Aires.
Gli studiosi gramsciani di vaglia più avvertiti sono dell’avviso che la grandezza di Gramsci consiste essenzialmente nell’aver prodotto alcune cruciali categorie concettuali (blocco storico, nazionalpopolare, egemonia, crisi, moderno principe, guerra di posizione) che possono aiutare ad analizzare anche con approcci nuovi non pochi eventi storici del nostro tempo, comprese le drammatiche trasformazioni politiche, sociali ed economiche che hanno investito in questi ultimi tempi le società arabe. Del resto – dice Daniel Atzori, in Gramsci e le rivolte arabe – “l’interesse degli intellettuali arabi e musulmani per il pensiero di Antonio Gramsci non è un fenomeno nuovo”. Da tempo gli studiosi arabi si accostano ai “Quaderni” alla ricerca di lumi e più volte Gramsci ha fornito loro l’approccio metodologico corretto ed alcune categorie per analizzare i mutamenti politici, sociali in atto nei loro paesi.
L’interesse si è rinnovato e ha ripreso vigore anche da noi, in questa epoca di crisi e di “passioni tristi,” così priva di leader autorevoli, dalla tempra morale forte. Nel nostro Paese, dove si è smarrito il senso dello Stato ed ogni principio etico, dove la corruzione ha toccato livelli impensabili e la gente, nell’incertezza del futuro, cerca solo di abbarbicarsi al suo “particulare”, il “ritorno a Gramsci” si spiega con il drammatico bisogno di rispondere al vuoto ideale, etico e culturale con un pensiero forte cui rifarsi per rifondare il senso della politica della moralità e della cultura, condizioni queste pregiudiziali per la formazione di una cittadinanza democratica vigile, responsabile e tollerante.
Vorrei ricordare, nel settantacinquesimo anniversario della sua morte, alcune significative citazioni, tratte dalla sua variegata riflessione teorica, da cui emerge plasticamente la sua grande statura morale, civile e umana.
Lettera alla madre: “Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione […] vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini”. (10 maggio 1928).
Che cos’è la cultura: “Cultura, non è possedere un magazzino ben fornito di notizie,ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri (…).
“Cultura è la stessa cosa che la filosofia… ciascuno di noi è un poco filosofo: lo è tanto più quanto più è uomo… Cultura, filosofia, umanità sono termini che si riducono l’uno nell’altro (…) Cosicché essere colto, essere filosofo lo può chiunque lo voglia. Basta vivere da uomini, cioè cercare di spiegare a se stessi il perché delle azioni proprie e altrui, tenere gli occhi aperti, curiosi su tutto e tutti, sforzarsi di capire; ogni giorno di più l’organismo di cui siamo parte, penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione, dì volontà; non addormentarsi, non impigrire mai; dare alla vita il suo giusto valore in modo da essere pronti, secondo le necessità, a difenderla o a sacrificarla. La cultura non ha altro significato”. (Quaderni del Carcere).
E infine questa celebre e di grande attualità riflessione, tratta da Città Futura,” 1917: “Odio gli indifferenti”.
“Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”.
Gramsci consapevole che “si è responsabili di ciò che si fa, ma anche di ciò che non si fa,” come direbbe Voltaire, denunciava con questa invettiva il vecchio vizio, purtroppo tanto attuale, quello cioè di stare alla finestra, chiamarsi sempre fuori, non assumersi le responsabilità pubbliche. Credo che il suo monito sia più che attuale, proprio oggi nel nostro Paese dove il gradimento dei cittadini verso i partiti, secondo l’ultimo rilevamento operato da Ilvo Diamanti, è al 4%, e un numero sempre maggiore di cittadini, soprattutto giovani, guarda con diffidenza alla politica e ai partiti e a ogni tornata elettorale aumenta la percentuale di chi non si reca a votare. Purtroppo il distacco del Paese reale dai partititi tradizionali è destinato a crescere sempre di più se le forze politiche non troveranno la forza di rigenerarsi e rinnovarsi. Ma penso che, nella ricorrenza della strage delle Fosse Ardeatine e nell’approssimarsi del 25 aprile, anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, tutti debbano ritrovare le ragioni per impegnarsi a far rinascere la buona politica, quella rinnovata, democratica, partecipativa e vicina agli interessi dei cittadini.
“Occupatevi della politica – scriveva un ragazzo condannato a morte dal Tribunale fascista nella sua ultima lettera ai genitori – altrimenti sarà la politica a occuparsi dì voi”.
Aveva imparato la lezione di Gramsci.
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