A due anni dall’arrivo di Gennaro Gattuso alla guida del Milan, inopinatamente giubilato la scorsa estate, mi vedo costretto – io rossonero di antichissima data – a intervenire di nuovo sulla crisi endemica della squadra italiana che più di ogni altra ha vinto all’estero, che ormai da anni naviga però a venti punti in media dalla vetta della classifica e divora dirigenti, allenatori e calciatori in serie. Partiamo da un dato di fatto oggi quasi drammatico: la graduatoria che ancora una volta non lascia scampo. Quattordicesimo posto a meno undici punti dall’ambita zona Champions e, quel che più deve preoccupare, a soli più sette dall’ultima della classe, realisticamente una finestra semiaperta sulla serie B. Si riaffaccia lo spettro del“gulag”calcistico che il Milan preberlusconiano si guadagnò negli anni ’80, una prima volta per le scommesse illecitedi alcuni suoi giocatori e una seconda volta direttamente sul campo, “a gratis” come beffardamente ricordava ai cugini l’allora vicepresidente dell’Inter, l’avvocato Peppino Prisco.
La paternità dell’attuale situazione è da ricercare in ben tre cambi di proprietà in pochi anni, nella confusione dei progetti messi in cantiere, negli equivoci tecnico agonistici legati alla scelta degli allenatori e dei calciatori. Diciamolo con chiarezza, la gloriosissima gestione berlusconiana si è chiusa come peggio non si poteva con la vendita della società a un nebuloso affarista cinese misteriosamente uscito di scena dopo aver mancato il versamento del saldo finale al sire di Arcore.
L’inadempienza contrattuale ha portato alla ribalta, come da contratto, il fondo di investimenti americano Elliot, garante di tutta la non proprio trasparentissima operazione, il quale alla fine – primavera scorsa – si è ritrovato tra le mani il Milan. Mentre si consumavano queste vicende societarie si gonfiavano i debiti, si alternavano dirigenti come Fassone e Mirabelli,volti da Inter che con il Milan e la sua storia c’entravano poco o nulla, si divoravano allenatori in serie come Inzaghi, Seedorf, Mihajlovic, Brocchi nel lungo crepuscolo del Cavaliere. Crespuscolo aperto dalla simultanea cessione di Ibrahimovic e Thiago Silva, dal pensionamento di altri campioni, dal mancato acquisto di Tevez, un killer sotto porta (Juventus docet per anni) e dalla ricerca ossessiva di sbiaditi parametri zero. Poi arrivò – gestione cinese – il gioco elegante ma ruminato di Montella, rilevato giusto due anni fa da Gennaro Ivan Gattuso che con la sua ruvida ma appassionata gestione, sostenuta dai tifosi, ha sfiorato la qualificazione in Champions per un solo punto approdando nell’Europa League poi abbandonata causa fair play finanziario con l’Uefa.
Intanto nei piani alti di Casa Milan la gestione Elliot dava largo credito a Paolo Maldini, a Zvonimir Boban, due immensi totem del Milan che fu ma scarsi di esperienza dirigenziale e all’amministratore delegato Gazidis, un sudafricano inglese con fama di moltiplicatore di fatturati. Intanto il voltagabbana Leonardo, allettato come da copione da più lucrosi emolumenti riapprodava al Psg, in verità non una gran perdita per Milanello. Primo risultato dei cambiamenti l’addio di Gattuso che pare chiedesse uomini di esperienza da affiancare ai giovani già a libro paga a fronte di una proprietà decisa invece a puntare esclusivamente su atleti“di prospettiva”, secondo un improbabile modello Arsenal. Congedato Ringhio che, onore al merito, non ha mai polemizzato con il suo Milan, ecco arrivare Giampaolo, un Sacchi minore con un target professionale da metà classifica. Ad agosto proclama: “Giocare bene a testa alta è il nostro programma”.
L’organico intanto viene imbottito da alcuni talentini in fieri (Krunic, Leao, Duarte, Benaccer) ma da nessun campione collaudato capace di essere un riferimento sicuro per tutti. Diciamo uno come Modric per intenderci. Non solo, vengono messi alla porta uomini antichi ma di sicuro affidamento come i difensori Zapata e Abate, quest’ultimo un pezzo di vecchio Milan, capace di dare il suo vigoroso contributo in più ruoli.
Lo scorso anno riuscì a farsi onore anche come centrale di difesa sostituendo per alcune giornate il peraltro non eccelso Musacchio infortunato. Per far cassa si rinuncia al poderoso Bakayoko e si sceglie di far a meno anche di Patrik Cutrone, giovane e combattivo attaccante del vivaio cui si deve l’ultimo derby vinto dai rossoneri in Coppa Italia. La sua cessione si aggiunge a quelle premature di ElShaarawy, di Locatelli, di Cristante, di Verdi, messe a segno dalla varie gestioni succedutesi in questi anni. Parte la giostra del campionato e nel giro di un paio di mesi Il piatte piange al punto che Giampaolo deve fare le valige di corsa e lasciare il posto a Stefano Pioli, onesto geometra della panchina. Fa giocare discretamente la squadra ma perde con allarmante puntualità. Come un Dorando Petri della pedata il Milan si affloscia quasi sempre poco prima del fischio finale.
Alla ripresa del campionato a San Siro (23 novembre alle 18) arriverà il Napoli di Carletto Ancelotti nostro, pure lui inguaiato in una complicata crisi d’identità pallonara. Pioli però non può più perdere altrimenti l’avvitamento nei bassi fondi della classifica potrebbe diventare davvero fatale.
Faccia dunque tesoro il buon Stefano di quanto ha detto domenica sera il suo giustiziere, il principino Dybala: “ l’importante è vincere non importa come”. Antica verità snobbata dai troppi aspiranti Guardiola in circolazione privi però dei talenti su cui può invece sempre contare il catalano gentile. E questo al netto delle suggestioni, temo infondate, del mercato di gennaio.
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