Ogni anno si ripresenta, con la stessa puntuale cadenza, un anniversario che mette un poco a disagio diverse persone (compreso chi scrive), soprattutto a sinistra. La retorica del 4 novembre, infatti, se da un lato va a braccetto con il nazionalismo di destra, dall’altro cozza con un certo imbarazzo di chi si è fatto portavoce dell’europeismo, della lotta ai nazionalismi, dell’antimilitarismo.
Le Frecce Tricolori che dipingono per qualche minuto il cielo su piazza Venezia, la solennità del Presidente della Repubblica che depone la corona di fiori alla tomba del Milite Ignoto, le celebrazioni che in ogni comune italiano radunano la cittadinanza attorno al monumento per i caduti: dinanzi a queste immagini è facile cedere, senza farsi troppe domande, ai sentimentalismi, e un attimo dopo ritrovarsi a intonare l’inno nazionale guardando il tricolore sventolare davanti al sole. I sentimentalismi non sono certo una colpa, ma possono diventare problematici se non vengono accompagnati da qualche riflessione sulla loro natura. A distanza di 101 anni dall’armistizio, può essere utile fare uno sforzo intellettuale e chiedersi: qual è il significato del 4 novembre oggi?
Si può pensare di festeggiare la vittoria della guerra; ma cosa significa celebrarne la vittoria contro uno stato che oggi è nostro alleato, nell’UE e nell’ONU? Come si conciliano il festeggiamento della vittoria in una guerra di conquista e il pacifismo, il ripudio della guerra?
Se invece l’intenzione è di celebrare il compimento dell’unità nazionale, come specifica il nome ufficiale di questa giornata, occorre quantomeno riflettere sui territori conquistati, in particolare il Südtirol: l’annessione di questa terra di confine fu tutt’altro che pacifica e volontaria; la città di Bolzano subì una forte opera di italianizzazione durante il Fascismo e ancora oggi, in quella terra di confine i sentimenti verso il tricolore sono controversi e discordanti.
Ma ciò che più di tutto dovrebbe far riflettere è l’idea di festeggiare la vittoria di una guerra di conquista, non necessaria, voluta da pochi e costata la vita, solo sul fronte italiano, a più di un milione di persone, senza contare i civili.
Tale celebrazione (così come la Grande Guerra) ha avuto un ruolo importante nel rafforzare l’identità nazionale, ma è il retaggio di un’epoca lontana, per quanto lontano possa essere il 1918. Nel mezzo c’è stata un’altra guerra, ben meno gloriosa, e una dittatura che ha portato avanti quella volontà di conquista
delle terre irredente, giù fino alla Dalmazia. Un’occupazione che degenererà nel dramma delle foibe dopo la caduta del regime fascista.
Cosa rimane, allora, di questo 4 novembre? I morti, i caduti. Loro devono essere ricordati. Ma non solo quei 650mila italiani
mandati a morire al fronte senza saperne con esattezza il motivo, a centinaia di chilometri da casa; non solo le 590mila vittime civili italiane. Bisognerebbe intitolare il 4 novembre alle 17 milioni di persone che hanno perso la vita in una guerra che, come sempre, è stata decisa da chi poi non l’ha combattuta.
Ciò che rimane è anche la forza del popolo: un popolo stremato e affamato, privato di figli, padri, madri, mariti e mogli, che ha trovato la forza per resistere e stringersi attorno ai propri cari in prima linea, inconsapevole che il loro vero nemico non era l’austriaco.
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