Sotto uno strato di nuvole, Varese riposava sotto le luci delle case che attraversavano il mare di nebbia, da cui emergeva la lanterna del Bernascone. Ero salito quassù al Sacro Monte con un amico per una cenetta e per condividere con lui, reduce dalla “Leopolda”, impressioni, idee, propositi.
Gli ricordo che anch’io ero stato trascinato, anni fa, alla convenzione renziana, ma ne ero uscito deluso perché mi sembrava che le emozioni fossero più abbondanti delle idee. A me, ormai anziano, abituato ai discorsi seri e penetranti come quelli di Moro, non garbavano troppo gli slogans stereotipati del protagonista. Avevo l’impressione che ci volesse tutti ai suoi piedi e che non tollerasse chi stava diritto. Mi avevano impressionato soprattutto i discorsi contorti dei partecipanti al “working group” sulla scuola, a cui avevo partecipato, e la baldanza dei miei amici di gruppo che non ammettevano dubbi sulle loro scervellate idee. Lo ammetto: mi sentivo a disagio perché io ragionavo cercando di riflettere sui mali della scuola e le loro cause, proprio come dovrebbe fare la pedagogia, mentre loro si affannavano a guardare al futuro traendo spunti dal pragmatismo utilitaristico anglo-americano che vede la scuola in funzione della società, dell’economia, dell’inserimento nel mondo del lavoro.
Ad un certo punto il nostro conversare inevitabilmente cadde sulla legge di bilancio, che il mio amico – più esperto di me in faccende economiche – bollava come poco espansiva e traboccante di tasse. Cercai di convincerlo che l’attuale governo aveva diminuito le tasse sterilizzando per ora l’aumento dell’Iva, il che significa un buon risparmio per le famiglie”. Ma come? – sobbalzò l’amico, irritato – Ha abolito la flat tax al 20% per le partite Iva, aumentato le aliquote Irpef, l’imposta di bollo, la cedolare secca sugli affitti commerciali…”
Lo interrompo: ”Alt! Francamente non so di che cosa parli perché il fisco per me è una materia ostile. Tu mi parli di quello che dovremo pagare, io preferisco parlare di quello che non dovrò pagare”.
“Adesso tirerai fuori le clausole di salvaguardia imposteci dall’Europa!”.
“Eh, no, caro mio. Su questo terreno ho le idee chiare. Primo di tutto l’Europa non c’entra. Le clausole di salvaguardia non ci sono state imposte dall’Europa, ma è uno strumento contabile inventato nell’agosto 2011 dal governo Berlusconi per rassicurare i mercati sulla solvibilità del nostro debito pubblico. L’Europa, col Trattato di Maastricht, aveva chiesto a tutti i governi la diminuzione dell’1% annuo nell’arco di vent’anni del differenziale del rapporto debito/PIL tra il livello d’allora (120%) e quello permesso del 60%. Per l’Italia significava, pertanto, una diminuzione annua media del 3%. In questo campo la stampa italiana è stata al riguardo avara di chiarezza, se non fuorviante. Mi segui? Nell’agosto 2011, l’Italia era a rischio di fallimento. Fu così che Berlusconi inserì nella manovra correttiva 4 miliardi per il 2012, 16 per il 2013 e 20 per il 2014. In parole chiare, addossò agli italiani un debito che, se non fosse stato saldato entro i termini concordati, avrebbe imposto l’aumento dell’IVA per somme equivalenti”.
“E venne Monti che fece una manovra lacrime e sangue, tra cui la “Legge Fornero” – continua il mio interlocutore.
“Sì, Monti, a cui non interessavano i successi elettorali, ma evitare il precipizio, grazie alle sue riforme strutturali, riuscì a sterilizzare la clausola di salvaguardia senza tagliare le spese e trovando risorse per 4 miliardi con un aumento dell’IVA e riducendo il gettito per il 2013 e per il 2014 di 6,3 miliardi su due anni. Le clausole di salvaguardia si ridussero da 36 miliardi a 29.7 miliardi. Poi venne il governo Letta che ereditò la clausola berlusconiana modificata da Monti”.
“E venne Matteo Renzi che si trovò un bel retaggio, un pesante fardello…” interviene l’amico.
“Come tutti i suoi predecessori – gli rispondo – Solo che Renzi in un primo momento chiese “maggiore flessibilità”, cioè la possibilità di contrarre altri debiti per sterilizzare le clausole, a costo di battere i pugni sui tavoli del Consiglio Europeo. Bruxelles glielo permise solo in parte e Renzi fu costretto ad aumentare progressivamente l’Iva e, se non sbaglio, le accise sulla benzina. I suoi successori Gentiloni e Conte non interruppero questa tendenza. L’attuale governo è il primo che va controcorrente: non si ricorrerà all’aumento dell’Iva per finanziare le misure previste dalla legge di bilancio. Il “salvo intese” – che ha destato le preoccupazioni di Bruxelles espresse in una lettera al nostro ministro dell’economia – potranno essere attenuate o inasprite dal Parlamento al momento della conversione in legge. Aggiungo che anche questo governo non rispetta pienamente gli accordi presi in Europa, che ci aveva chiesto un calo del rapporto deficit-PIL dello 0,6 mentre il governo l’ha calcolato in + 0,1, assicurando che il bilancio sarà sistemato con maggiori entrate dovute alla lotta all’evasione (3 miliardi) e dal calo delle spese per gli interessi sui buoni del tesoro.
‘Noi di Italia viva desideriamo cambiare queste regole’ ha detto Renzi a Firenze, cambiare è la regola della vita. Il Pd guarda troppo al passato ed è fossilizzato sul presente. Noi guardiamo al futuro!”
“Tutti i desideri sono degni di considerazione, ma non si può dire di sì secondo il desiderio che di volta in volta prevale. La nostra cultura democratica pone dei limiti alla democrazia e all’economia. Mi pare che Renzi non ci abbia presentato un progetto politico di una concreta visione della democrazia (riforme costituzionali, legge elettorale) di società (che cosa fare per combattere le disuguaglianze sociali?), di economia (ho capito bene che Renzi guarda al libero mercato?). Le ribellioni populiste rappresentano una sfida a questo ordine liberale. Queste insoddisfazioni sono i sintomi della frattura di fondo della nostra società. Bisogna partire da qui per costruire tutti assieme un futuro. Pertanto, più che a guardare al centro per strappargli un gruzzolo di voto, bisogna guardare a chi ha votato contro il nostro sistema democratico e a chi permanente non va a votare…”
Piuttosto stizzito, l’amico non nasconde il suo disaccordo: “È ora che il Pd cambi!”
Lo interrompo bruscamente: “Sono del tuo spesso parere. Ma per cambiare, il PD non ha bisogno di “salvatori della Patria” né di scontri “tra bande armate”, come si è espressa la ministra dell’agricoltura, ma di unità attorno a un principio fondamentale della sinistra: maggiore giustizia sociale. Questa non si può imporre solo per legge, ma con maggiore assunzione di responsabilità, di solidarietà, di cooperazione delle classi privilegiate verso chi ha meno. Non basta cambiare le leggi, occorre ricucire un paese che è allo sbando…”.
“E in che modo? Siamo stufi degli inutili litigi!” sbotta l’amico.
“Con la legge aurea dell’unire ciò che è diviso, di trovare un punto d’incontro, di dialogare. Ridursi a odiare l’avversario politico o addirittura l’amico dello stesso partito è accordarsi un assurdo diritto secondo il quale fare politica vuol dire avere un nemico. E spero che tu non me vorrai. Ci mancherebbe altro che dopo questa franca chiacchierata io perdessi anche un amico”.
Uscimmo assieme dal ristorante. Il vento aveva pulito l’aria. La luna dominava dall’alto la città e diventava sempre più tersa. Al contrario dei miei pensieri.
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