Dirlo è banale, ma la situation comedy della politica racconta d’un governo così debole da far della fragilità una forza: continua a reggersi in piedi, nonostante la caduta nel burrone umbro. Vista la malparata, riscrive la manovra economica cercando di secondare almeno minimamente l’auspicio espresso dal presidente della Repubblica quando il Conte bis s’insediò: non di sinistra piuttosto che di destra. Coerente. Semplicemente coerente. Se fai un patchwork senza senso, un’inanimata pezza attaccata all’altra, non crei un tessuto indossabile dal Paese. Se disegni/firmi un modello, piaccia o non piaccia esso ha un suo stile. E il mercato popolare lo giudicherà invece di rifiutarne la prova.
Non resta altro da fare a Cinquestelle, Pd, Leu e Renzi. Renzi pure lui, che a star seduto sulla riva del fiume, aspettando il transito di vittime amiche-nemiche, rischia di soccombere durante il funerale invece d’esserne l’officiante appagato. Di che cosa, poi? Il fallimento del governo stavolta riporterebbe alle urne, da dove uscirà a brandelli l’M5S, ammaccato il Pd e però non l’ex premier con numeri tali da imporre qualcosa a tutti. Dunque se un’intesa si può trovare, tra Italia Viva e i partner, va stretta adesso. O mai più.
Sullo sfondo restano gli svarioni della recente campagna elettorale. L’alleanza di malavoglia -dei Malavoglia- tra Cinquestelle e Democrats, la supergaffe di Conte (paragone tra l’Umbria e la provincia di Lecce), l’hubrys con cui è stato trattato il territorio: poche visite, chiacchiere vaghe, messaggi suicidi in merito alla legge finanziaria. Per non citare l’ormai celebre photo-inopportunity (Narni e ballerine?). Ciò non significa che un’alleanza futura tra i due partiti sia da scartare a priori, ma andrà (eventualmente) preparata con competente lungimiranza. Se no, meglio soprassedere.
Nelle more dell’improbabile miracolo, Di Maio si conferma il più inaffidabile degl’inaffidabili. Subìto il ko, annuncia -secondo l’ormai noto costume dadaista- l’addio agli alleati che egli ipse aveva cercato. Colpa loro se si è perso. Colpa di Salvini se Giuseppi1 andò a picco, colpa di Renzi se Giuseppi2 quasi boccheggia. Colpa sempre di qualcun altro. Sua, no – nisba – never. Forse è invece vero il contrario: uno che ha infilato così tanti sbagli e sconfitte, dovrebbe cedere al soprassalto di responsabilità e tirarsi da parte. Quel che resta dei Cinquestelle avrebbe maggiori probabilità di scampare all’estinzione.
A destra festeggiano, e han ragione d’esultare. Il voto umbro pesa, eccome, sulle sorti del governo, prende una topica chi lo minimizza. Salvini rimette la testa fuori dal sabbione estivo, Berlusconi si convince a riconoscerne la leadership dopo il legnaggio subìto da Forzitalia, e la Meloni si vende benissimo in un Paese alla frutta. Ora la strategia cambierà. Resta la visione di lotta, ma verrà accompagnata dalla visione di governo. Basta radicalismi ed eccessi, avanti con maggiore accortezza e moderazione. Era già chiaro che ci si dovesse muovere così, ora lo è ancora di più. La riconquista dell’Italia transita per un’inedita tattica: la spinta gentile al cambiamento. Salvini è già all’opera, in versione giacca/camicia/cravatta (rassicurante bianco-blu) profittando dell’immobilismo e della confusione degli avversari. Il ring non smobilita, siamo sempre alle corde: ma vedremo un pugilato nuovo, tra avversari dallo stesso nome e però con guantoni diversi.
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