“Per loro noi siamo solo della gente che ha bisogno di tagliarsi i capelli.”
Con questa frase si descrivono i protagonisti di Easy Rider, film di culto, opera prima di Dennis Hopper e appena restaurato dalla Cineteca di Bologna. È un road movie che è manifesto della cultura hippie, immagine dell’America del 1969 non ancora pronta ad accettare la sua inevitabile trasformazione, ostile al movimento ribelle di cui fanno parte i protagonisti.
Peter Fonda e Dennis Hopper interpretano Wyatt e Billy, motociclisti in un viaggio che procede senza scadenze e che non segue un itinerario preciso. Con l’idea di celebrare il Martedì Grasso a New Orleans, i due protagonisti imboccano una strada che in realtà non porta in nessun luogo ma è una ricerca esistenziale della propria identità che assumerà i contorni di un tragico viaggio di formazione. Sullo sfondo di maestosi paesaggi desertici, attraversati solo da fiumi d’asfalto, Wyatt e Billy incontrano una varietà di persone che, come loro, hanno scelto un’esistenza alternativa rispetto a quella tradizionale: una famiglia che si autosostiene e che vive chiusa nei confini della sua proprietà o una comunità che spera di nutrirsi spargendo semi su una terra desertica. A New Orleans ci arriveranno veramente, dopo essere stati tirati fuori dal carcere, in cui erano finiti per aver partecipato a una parata non autorizzata, da George, un avvocato fallito che si unisce a loro. Ci arriveranno cavalcando sempre le loro motociclette, equivalenti dei cavalli nei western sicuramente riecheggiati nel film, ma senza essere più gli stessi perché hanno ormai abbracciato totalmente la libertà come vero e proprio stile di vita. La meta non ha più significato e la loro esistenza è un viaggio infinito, come suggerisce il montaggio che sovrappone due scene in transizione per dare l’idea del perpetuo movimento.
Nel corso di questa mitica cavalcata accompagnata dalle famosissime note rock di Born to be wild degli Steppenwolf, i protagonisti appaiono come due supereroi (Wyatt indossa metaforicamente un casco di Capitan America) che però non hanno ancora compreso la portata della loro missione, che non hanno ancora coscienza di chi sono. Infatti, se da una parte il loro modo di vestire con giacche di pelle a frange e l’assenza di regole rispecchiano certo l’idea stereotipata dei figli dei fiori, dall’altra essi non sono consapevoli della paura che provocano in ogni luogo della società perbenista in cui passano. Questo è il motivo per cui non possono dormire in un albergo o entrare in una tavola calda senza essere vittima degli sguardi carichi d’odio e sospetto della clientela e della polizia.
L’unico che aprirà loro gli occhi sarà l’avvocato George, interpretato da un indimenticabile Jack Nicholson, con problemi di dipendenza e simbolo di una borghesia che è affascinata da questo viaggio che è allo stesso tempo una ricerca di libertà assoluta e un drammatico incontro con l’intolleranza e il pregiudizio. Come dice lui stesso in un dialogo del film, “ti parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura.”
Il film ruota intorno alla contraddizione di una società che teme la diversità anche pacifica e scambia un modello di vita semplicemente anticonvenzionale per una vera e propria minaccia. Wyatt e Billy vengono infatti uccisi dalla brutalità insensata e gratuita di sconosciuti, che dimostrano di rigettare le prospettive differenti della nuova generazione. Il finale improvviso e duro avviene in contrasto con la più bella e fertile campagna che i motociclisti attraversano, in una congiura silenziosa che non fa scattare allarmi e seppellisce la tragedia nell’indifferenza. Per tutto il viaggio i due hippie guardano all’orizzonte come se la strada sotto le loro ruote portasse alla libertà e invece quella natura incontaminata e selvaggia nasconde per l’ennesima volta violenza.
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