Giunto alla sua conclusione il Sinodo sull’Amazzonia lascia in eredità una serie di documenti che ora andranno studiati con attenzione. Ma intanto i briefing quotidiani in Sala stampa vaticana, così com’era accaduto per il Sinodo sui giovani, hanno permesso di ascoltare i protagonisti della Chiesa locale. Occasione imperdibile per conoscere una realtà così lontana.
Don Justino Sarmento Rezende, per esempio, è il primo indigeno brasiliano a essere stato ordinato sacerdote. Appartiene alla Congregazione Salesiana e ha collaborato per più di due anni alla preparazione del Sinodo sull’Amazzonia. “La mia vocazione è nata ascoltando e guardando i missionari che andavano a incontrare i miei nonni nelle foreste dell’Alto Rio Negro – racconta –. Ma quando ho espresso il desiderio di diventare sacerdote cattolico mi è stato risposto che era meglio se andavo a giocare a pallone”.
Don Rezende racconta l’episodio con allegria ma la sua difficile vocazione evidenzia bene il lungo percorso fatto in questi anni tra sospetti e incomprensione verso la cultura indigeno-amazzonica.
“Alla fine l’ho spuntata – prosegue –. Ho iniziato a studiare nel Centro vocazionale Salesiano di Manaus e, terminata la mia formazione, sono stato ordinato sacerdote il 2 giugno del 1994 nella missione di Pari Cachoeira “.
Ora il sacerdote vive con le popolazioni indigene di Tucano, Tariano, Tuiuca, Piratapuia, Dessano, Uianano, Cubeu e Rupita. “Con questa gente – dice ancora – ho cominciato a sognare e a mettere in pratica il mio desiderio di rendere diversa la celebrazione delle messe, di creare canti in lingua tucana, di trovare testi biblici comprensibili per l’Eucaristia. Come popolazioni indigene, abbiamo iniziato a introdurre anche i nostri simboli, strumenti musicali e ritmi. “
Con chi gli obietta che celibato e vita indigena sembrano incompatibili taglia corto: “Sono un prete cattolico. Se dovessi un giorno accorgermi di non essere più in grado di vivere il celibato, lascerei la tonaca”.
Don Sebastião Lima Duarte, vescovo di Viana, nello stato del Maranhão, associa la protezione dei popoli amazzonici ai conflitti per la terra scatenati da un’assenza di delimitazione delle terre. Un caso di particolare rilievo è quello che riguarda la sua diocesi, dove il popolo indigeno Gamela soffre l’attacco di occupanti abusivi. Un altro caso è quello del popolo Jaminawa Arará, nello stato di Acre, che vive lo stesso problema. Saccheggi e i furti di risorse naturali sono all’ordine del giorno così come la pratica arbitraria dell’occupazione delle terre. “La Chiesa – sostiene don Sebastião – deve intervenire promuovendo un processo di riorganizzazione dei popoli indigeni. Bisogna schierarsi con decisione dalla loro parte, nel recupero delle terre e nella riaffermazione delle loro culture”.
Una drammatica galleria fotografica, allestita nella Chiesa della Traspontina a pochi passi dalla sede dei lavoro del Sinodo, testimonia l’arroganza e l’assenza di scrupoli di molte finanziarie che giungono sino alla minaccia se non all’omicidio pur di ‘sfrattare’ i popoli amazzonici dalle loro terre.
Racconti spesso carichi di dolore, come quello dell’indigena peruviana Yesica Patiachi Tayori, docente bilingue del popolo Harakbut e membro della pastorale indigena del vicariato apostolico di Puerto Maldonado, che il Sala Stampa vaticana, denuncia come le multinazionali che operano in Amazzonia “vogliono che scompariamo”. “Dov’è l’Onu? Dove sono le altre organizzazioni internazionali? – si chiede – davanti agli abusi, alla tratta delle persone, ai maltrattamenti sulle donne”.
“Noi siamo e saremo i guardiani della foresta – garantisce la docente indigena – ma la casa comune è responsabilità di tutti. Abbiamo chiesto al Papa che ci aiuti ad essere rappresentati presso le istituzioni nazionali e internazionali, affinché non lascino che ci estinguiamo come popolo e ci consentano di vivere nell’autodeterminazione“.
Problemi che dal nostro ristretto punto di osservazione facciamo fatica persino ad immaginare. Pedro José Conti è vescovo di Macapá, una diocesi di 148 mila km quadrati che occupa quasi tutto lo stato di Amapá, nel nord del Brasile, alla foce del Rio delle Amazzoni. “Nella mia terra, che è grande come tutta l’Italia settentrionale – spiega – in alcune parrocchie abbiamo cento comunità e un solo sacerdote. Chi porta avanti il lavoro sono i laici e le laiche. I sacerdoti devono prepararli, seguirli e guidarli, ma sono loro che costruiscono la Chiesa.
Alcuni hanno obiettato a papa Francesco che l’Amazzonia in fondo è così lontana da non giustificare un Sinodo ‘ad hoc’. Dopo tre settimane di lavoro abbiamo scoperto che in realta’ essa è molto più vicina all’Occidente di quanto pensiamo. Alcune dinamiche di prepotenza economica, di mancanza di rispetto per l’ambiente come pure di scarsezza di sacerdoti per la pastorale, bussano già alle nostre porte.
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