Non ho mai letto Peter Handke, né lo conoscevo prima d’ora, pertanto non mi permetterò di giudicarne le qualità letterarie. Per questo aspetto mi devo fidare dell’intelligenza e della competenza degli Accademici svedesi che lo hanno premiato con il Nobel per la letteratura 2019.
La motivazione del premio tiene conto de “l’influente opera che con inventiva linguistica ha esplorato la periferia e le specificità dell’esperienza umana”.
La biografia del neopremiato e una prima intervista al settantasettenne austriaco, ora residente a Parigi, mi hanno svelato alcuni lati inquietanti dello scrittore austriaco.
C’è un “piccolo” neo, sul quale l’Accademia di Svezia ha glissato, una macchia che lo stesso scrittore considera soltanto un affare personale: Handke è stato, è tuttora, filoserbo. Meglio, filo Milosevic, il dittatore serbo che negli anni della guerra della ex Jugoslavia ha fornito armi e sostegno incondizionato, tra gli altri, a criminali di guerra come Karadžić, ex presidente della Repubblica serba, Mladić, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito serbo-bosniaco, fucilatori, stupratori e massacratori.
Lo scrittore non ha neppure provato a spiegare le proprie posizioni, d’altro canto chiaramente espresse in alcuni suoi scritti. Intellettuale di elevato livello culturale, considera “personali” le proprie posizioni, affermando di aver agito e parlato sempre da “scrittore”, mai da politico o da giornalista.
Forse ci troviamo di fronte a una sindrome dissociativa.
Lo scrittore ha attraversato la seconda metà del Novecento, essendo nato durante l’ultima guerra mondiale, è un intellettuale profondo e acuto, autore di decine di romanzi, sceneggiature, poesie, tradotti in diverse lingue e apprezzate dai critici. Oggi afferma che le sue posizioni, la sua visione della realtà, sia pure trasfigurata dall’invenzione narrativa, appartengono solo a lui.
Lo ha ribadito: ne risponde solo da scrittore.
Uno scrittore che ha apprezzato Milosevic.
Che si dichiara un “non politico” e un “non giornalista”, ritenendosi pertanto in diritto di non fornire spiegazioni al mondo come invece tocca fare sia all’uno sia all’altro.
Che si era recato ai funerali di Miloševic intervenendo con un’orazione funebre elogiativa.
Che ne aveva tessuto le lodi, mostrando ammirazione e condivisione. Sempre da scrittore.
I giornalisti che lo hanno intervistato il giorno dopo la notizia del Nobel gli hanno chiesto conto di certe posizioni.
Ma hanno rinunciato a incalzarlo quando si è rifiutato di rispondere da uomo o da cittadino.
Non hanno preteso dall’uomo Handke il suo giudizio di oggi su Milosevic.
Hanno lasciato perdere di chiedergli se davvero ritiene che il dittatore abbia ben agito assecondando la pulizia etnica nel suo paese, con l’orribile corredo di stupri e con le esecuzioni di massa.
Handke non ha fornito alcuna spiegazione, ammesso che ve ne sia una accettabile, sul genocidio di Srebenica, sugli 8mila e più musulmani maschi massacrati.
Indignate le madri del Comitato per i figli massacrati in quella “circostanza”: hanno protestato presso l’Accademia svedese e chiesto la revoca del Nobel.
Scrivono che “l’uomo che ha difeso i macellai dei Balcani non può ottenere questo premio. Può qualcuno che difende coloro che hanno commesso il genocidio ottenere un Nobel?”.
Nel mio piccolo di forte lettrice mi comporterò come la scrittrice Susan Sontag che qualche anno fa, ancora prima che qualcuno pensasse seriamente al Nobel per Handke, dichiarò che non avrebbe – mai più – letto un suo libro.
Uno scrittore anglosassone di origine indiana, Hari Kunzru, ha ben interpretato il pensiero di chi come me non si capacita della scelta operata dagli svedesi, definendo “scioccante cecità etica” la sindrome di cui soffre il Nobel 2019 per la letteratura.
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