Poltrone, poltronifici, attaccati alle poltrone… Sono termini e fraseologie che nel dibattito politico attuale sono sempre più usati (e abusati) e in modo trasversale: ognuno vede le poltrone dell’altro e mai le proprie, come la pagliuzza e la trave della massima evangelica.
In realtà non esiste polemica più demagogica di questa (con le dovute spiegazioni e correzioni di rotta).
Cominciamo da Matteo Renzi il quale, dopo lo sciagurato referendum del 4 dicembre del 2016, disse che se lo avesse perso si sarebbe ritirato a vita privata; cosa che – è sotto gli occhi di tutti – non ha mai fatto, al punto d’essere arrivato, tre anni dopo, a fondare un partito-movimento tutto suo con grandi aspirazioni di successo.
Proseguiamo con Matteo Salvini, che ha accusato un po’ tutti d’essere rimasti attaccati alle poltrone, quand’egli inopinatamente aveva rinunciato alle sue forse per conquistarne una ancora più… megagalattica di tutte le altre; e ha scoperto che – per il momento – il mercato era chiuso.
Proseguiamo con Luigi Di Maio, capo (?) del Movimento Cinque Stelle, che – prima della crisi – di poltrone ne annoverava ben tre standovi più che comodamente seduto: quella di leader del movimento, di vicepremier e di ministro del lavoro e dello sviluppo economico. Ne ha mantenute due: capo del movimento e ministro degli esteri.
Concludiamo con il presidente del consiglio “di tutte le stagioni” Giuseppe Conte, passato con estrema disinvoltura e in un batter d’occhio da capo del governo a destra a capo del governo a sinistra, seduto sempre sulla autorevole e medesima poltrona, appunto.
Si tace degli strapuntini su cui stavano appiccicati l’uno all’altro, fino a un paio di mesi fa, quelli del Pd e della sinistra. Adesso spaziano, e per merito del loro rivale antecedente, addirittura su divani e divanetti.
La rapida disamina ci dice che le poltrone non sono oggetto di conquista ma che vengono assegnate dagli elettori. E magari con minori garanzie di contrappesi democratici, come accadrà, dopo il recente taglio di un terzo dei parlamentari di Montecitorio e Palazzo Madama, se non saranno adottate opportune contromisure di riforma della Carta costituzionale e una nuova legge elettorale. Ha fatto bene chi, durante il dibattito parlamentare sul taglio degli eletti, s’è rivolto a un gaudente Di Maio, spiegandogli che la sua poltrona vale – al momento – come un’altra. Né più né meno: una più una, per dirla con un linguaggio consueto e caro ai Cinquestelle, ma ciò che conta davvero è la qualità più che la quantità.
Si direbbe, vista la quasi unanimità dei votanti a favore della riduzione dei parlamentari, che questo sia stato un prezzo pagato non in nome della democrazia e del risparmio ma della demagogia. Al punto che ormai ogni leader o capo di partito può fare credere qualsiasi cosa ai propri fan, come un campione sportivo che ha appena segnato un gol: abbracci in campo e, fuori, selfie a tutto spiano.
A mancare in tutto questo scambio di “poltronistiche” e superficiali accuse, come faceva rilevare in un articolo sull’Espresso Sofia Ventura è la politica, un disegno per costruire un Paese il più possibile serio e efficiente. Il vero cambio di direzione non è tanto dato dal mantenimento della poltrona, cosa che, come si è detto, viene assegnata dal cittadino elettore (quando decide di andare a votare), ma dal decidere che cosa fare, in modo autonomo e coerente. Invece oggi si è disinvoltamente sul pero e domani sul melo. Chi era l’avversario di prima diventa l’alleato (o il complice) di oggi. E la “ggente” applaude, nei bar, sorseggiando uno spritz.
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