Nel tempo in cui volgono al tramonto le esistenze dei testimoni della Shoah, quale memoria trasmetteremo di quella esperienza alle future generazioni? Questa la domanda che si affaccia quasi in chiusura del breve e denso volume di Walter Barberis, Storia senza perdono, uscito di recente per Einaudi. La memoria diretta, nella comprensione di quella pagina della nostra storia, è «imprescindibile e terribile». Ed ha faticato a lungo prima di emergere tra la diffusa indifferenza del secondo dopoguerra verso le tragedie collettive appena concluse e la difficoltà dei testimoni sopravvissuti a raccontare la propria esperienza.
Difficile parlarne, a guerra finita. Difficile parlarne perché mancavano le parole per descrivere quanto era accaduto. Difficile parlarne per il complice coinvolgimento in quella vicenda di paesi che volevano seppellire le proprie responsabilità e cercavano ora di ricostruire una rinnovata convivenza civile, fondata su valori nuovi. Se una memoria andava celebrata, alla fine di una guerra, era quella degli eroi vincitori. In Italia fu quella dei protagonisti della Lotta di Liberazione, su cui si esercitò, nell’immediato, la letteratura. I sopravvissuti alla Shoah non erano eroi, ma vittime. Sopravvissuti per caso, la cui presenza poteva al massimo creare imbarazzo (mi viene in mente il personaggio di Geo Josz del racconto di Bassani, Una lapide in via Mazzini, unico sopravvissuto della comunità ebraica di Ferrara, la cui sola presenza in pubblico genera fastidio). Il loro racconto, quando ne ebbero la forza, apparteneva a loro soltanto e ad un passato che andava lasciato alle spalle. Anche quando il loro racconto assumerà la forma di una straordinaria opera letteraria, come nel caso di Se questo è un uomo.
Anche durante il processo di Norimberga, tra la fine del 1945 e la fine del 1946, si pensò di poter fare a meno della testimonianza delle vittime. L’accusa era sostenuta da documenti e non ci fu spazio per le storie di quanti avevano vissuto sulla loro pelle e visto con i loro occhi gli effetti di quegli ordini o di quei rapporti.
La «svolta», come la chiama Barberis, che consentì alla voce dei testimoni di oltrepassare la memoria individuale e diventare pubblico atto d’accusa coincise con il processo a Gerusalemme di Adolf Eichmann nel 1961. In quella occasione, per la prima volta sfilarono di fronte al loro carnefice le vittime. Il vero imputato non era quell’uomo banale, tutto sommato molto modesto, ma il nazismo e il suo progetto genocidario. E quel processo si consumava, di fronte al mondo, proprio nello stesso periodo in cui la storiografia iniziava una meticolosa opera ricostruttiva del tentativo di distruggere il popolo ebraico in Europa (nel 1961 uscì The Destruction of the European Jews, di Raul Hilberg).
Da quel momento in poi, la voce dei testimoni, dei sopravvissuti senza eroismo, iniziò ad assumere un’inedita forza. Fondamentale per il lavoro degli storici ed elevata ad «antidoto contro il ripetersi di politiche totalitarie e razziste». Anzi, si riconobbe ai testimoni diretti il ruolo di autorità indiscussa nella restituzione dell’esperienza del lager. Come affermò il premio Nobel Elie Wiesel, i sopravvissuti allo sterminio «hanno da dire su quello che è […] successo [nei campi di morte] più di tutti gli storici messi insieme, poiché «solo coloro che vi passarono sanno cosa fu; gli altri non lo sapranno mai».
Tuttavia, chi fa il lavoro dello storico, sa che la ricostruzione quanto più possibile veritiera di ciò che è stato non può fondarsi solo sulla memoria individuale. «Memoria e storia non sono la stessa cosa», osserva Barberis.
Peraltro, nei decenni successivi, la memoria, e la memoria della Shoah in particolare, è stata presa d’assalto. Accanto agli assassini della memoria, come Pierre Vidal-Naquet definì alla fine degli anni Ottanta i negazionisti, si iniziarono a registrare troppi falsi testimoni (l’autore del saggio ne offre un ricco campionario). E questi, una volta riconosciuti pubblicamente come millantatori, diventavano pretesto per insinuare il dubbio che anche le testimonianze e le memorie “vere” potessero essere “false”.
A distanza di tanto tempo dallo svolgersi di quegli avvenimenti drammatici, la moltiplicazione di racconti, scritture, visioni dedicati alla Shoah, la istituzionalizzazione del ricordo di quella storia nella forma della liturgia civile, ha prodotto il desiderio di chiudere definitivamente i conti con il passato con la singolare invocazione di un «perdono». Ma, a parte la banale considerazione che per essere “perdonati” non è sufficiente reclamare il “perdono”, quanto piuttosto ottenerlo da chi un torto ha subito, Barberis opportunamente ci ricorda che «il perdono è la più alta forma di amnistia; e la amnesia è la sua diretta conseguenza».
E allora? Cosa rispondiamo alla domanda dalla quale siamo partiti? Quale memoria trasmetteremo di quella esperienza alle future generazioni, quando anche l’ultimo testimone sarà scomparso? Come arginare l’inevitabile insorgere dell’oblio? «Ci salverà solo la razionalità della ricerca, l’onestà dell’insegnamento, e tanta umanità.»
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