Nel nostro paese, si sa, il tifo calcistico è come una religione. Il paragone non è calzante solamente per il carattere fideistico (se non fanatico) delle due dimensioni, ma anche per la diffusione. Secondo i dati di Statista European Football Benchmark, 34 milioni di italiani si dichiarano interessati al calcio; di questi, 19 milioni leggono articoli sul mondo del pallone e si informano più volte alla settimana. Ci sono giornali, canali televisivi e siti dedicati interamente o quasi a questo sport, perno di un mercato che vale decine di miliardi di euro.
È dunque ovvio che il calcio (e tutto ciò che vi orbita intorno) ha una naturale influenza sull’opinione pubblica: le persone parlano di calcio al bar e sui social network; commentano le partite, ma anche gli episodi che non riguardano strettamente ciò che succede nel rettangolo di gioco. Il calcio veicola messaggi, spesso politici, che attraverso televisioni e quotidiani arrivano a casa dei 34 milioni menzionati sopra. Lo abbiamo imparato bene fin dai tempi di Berlusconi, che in campagna elettorale aveva il vezzo di stupire i tifosi con qualche sensazionale colpo di mercato.
Chi dunque sostiene che calcio e politica siano due sfere ben separate, o è ingenuo o è in malafede.
Lo sanno bene i dirigenti del F.C. St. Pauli, squadra che milita nella seconda divisione tedesca, i quali hanno deciso di rescindere il contratto con il centrocampista turco Cenk Şahin, colpevole di aver scritto un post di sostegno all’invasione della Siria da parte del suo paese.
E lo sa bene Erdoğan. Venerdì della scorsa settiman, per celebrare la vittoria strappata all’Albania per uno a zero, i giocatori turchi hanno posato come soldatini davanti a 47mila spettatori, ma soprattutto proprio davanti alle telecamere, facendo il saluto militare.
In Italia, come vanno le cose?
La bufera si è scatenata anche qui. Ünder, in forza alla Roma, ha pubblicato un tweet con delle bandiere turche e un vecchio scatto che lo ritrae mentre fa il saluto militare. Ma non è il solo: anche il difensore juventino Demiral ha condiviso sui social la sua soddisfazione per le operazioni militari di Erdoğan; inoltre, tra i giocatori che hanno fatto il saluto dopo il match con l’Albania c’erano lo stesso Demiral e il milanista Çalhanoğlu.
È importante dire che, rispetto al caso del F.C. St. Pauli, qui stiamo parlando di nomi di spessore per le rispettive squadre. Ma ci si aspetta comunque una risposta, dalle società, dalla Federazione Italiana e dalla UEFA. In particolare, molti chiedono che quest’ultima provveda a spostare da Istanbul la finale di Champions League prevista per il 30 maggio 2020.
Ma, al di là di queste ultime vicende, c’è un tema ben più grave su cui il calcio in Italia esercita una notevole influenza.
Il razzismo, così come il fascismo, è un tema ampiamente sdoganato nei nostri stadi. La tiepidezza con cui la Federazione e gli arbitri affrontano la questione non scalfisce, anzi consolida la percezione di impunità e goliardia che aleggia fra i tifosi. Il regolamento (riformato dopo il plateale episodio di “buu” razzisti durante Inter-Napoli del 26 dicembre 2018) prevede che la gara venga annullata solo dopo ripetuti richiami, tanto che nessuna partita di Serie A è mai stata interrotta definitivamente per cori razzisti o di discriminazione territoriale. Nella migliore delle ipotesi, il match viene sospeso per alcuni minuti. Come dire ai tifosi: “Avete a disposizione solo un paio di cori razzisti, usateli bene”. Quando, a inizio stagione, il centravanti dell’Inter Lukaku venne fatto oggetto dei consueti ululati, i suoi stessi tifosi gli indirizzarono un comunicato in cui sostenevano che “in Italia usiamo certi modi solo per aiutare la squadra e cercare di rendere nervosi gli avversari non per razzismo ma per farli sbagliare”.
Gli ultras della Lazio che nel 2017 affissero adesivi raffiguranti Anna Frank con la maglia della Roma, come fosse un insulto, sono ancora lì, allo stadio Olimpico, con la silenziosa complicità della dirigenza.
Purtroppo, questa è la normalità negli stadi nostrani, e lo sanno anche i ragazzini che recepiscono ogni weekend questi contenuti, allo stadio o in televisione. D’altronde, fino a quando il presidente della FIGC Giovanni Malagò sosterrà pubblicamente (come ha fatto) che “un giocatore che simula è più grave dei cori razzisti”, i margini di miglioramento saranno ristretti.
Ciò che serve sono risposte concrete ed estreme: buttare fuori razzisti e fascisti dagli stadi, condannare apertamente chi si fa portavoce entusiasta di invasioni militari, chi porta la criminalità dove non dovrebbe esserci. Ma nessuno, né politici né Federazioni, sembrano avere il coraggio di andare contro le tifoserie e di toccare ciò che è sacro.
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