Sono diventato grande pensando che Belforte fosse un luogo bellissimo. Un insieme di giardini ambiziosi e di officine geniali. Ma soprattutto un “luogo della storia”. Belforte iniziava con un “monumento”, la casa Merini con la sua indispensabile lapide-ricordo di Garibaldi e terminava con un altro “monumento”, il Castello senza lapide.
Che i due “monumenti” fossero piuttosto malmessi, da ragazzo in fondo non mi sembrava così importante. La storia non si misura sempre con la bellezza, con il perfetto restauro, con una adeguata manutenzione. Almeno, così mi pareva.
Casa Merini era maltenuta, malconcia, maleodorante e forse anche “malabitata”. E il Castello non aveva una sorte migliore né migliori frequentazioni.
La mia famiglia affondava le sue radici nei terreni di Belforte fino dal 1500 o giù di lì. Noi eravamo “i Rossi della Cascina Giunta”. E da ragazzo mi sembrava di “appartenere alla storia”, soprattutto da quando mio padre aveva raccontato che il primo morto della battaglia di Varese tra Urban e Garibaldi fosse proprio un Rossi, un nostro antenato. Ed era marginale il fatto che questo Rossi fosse morto non in un’eroica azione militare, con la bandiera italiana alzata al vento come devono morire gli eroi, ma mentre cercava di ritornare alla Cascina Giunta per recuperare dell’oro dimenticato e qui, scambiato per una spia o per chissà cosa altro, colpito a morte. Insomma: la fine non particolarmente gloriosa non aveva intaccato mai la mia convinzione di essere un tassello, sia pure marginale, del grande muoversi degli eventi.
Ad accrescere questa convinzione orgogliosa contribuì anche un secondo parallelo racconto di mio papà. Un altro Rossi, uno zio allora diciassettenne, aveva aspettato il passaggio di Garibaldi davanti al Circolo. Qui aveva gridato: “Eroe, vengo con te”. E Garibaldi, come deve fare ogni eroe biondo e bello, l’aveva raccolto, fatto salire sul cavallo di un suo ufficiale e portato in giro di battaglia in battaglia, pronto ad entrare anche lui nella storia. O almeno, così mio padre la raccontava.
Non si era mai neppure pensato, a casa mia, che il Castello dovesse essere restaurato, recuperato, utilizzato in modo diverso che come abitazione a bassissimo costo per chi non poteva permettersi una casa migliore. Lo stesso per Casa Merini, tanto che quando venne demolita mio padre ne fu così contento da lanciarsi in grandi discorsi sulla necessità di interventi urbanistici per modernizzare questa città che invecchiava troppo. E quando l’architetto Cazzola, già in anni ormai lontani, incominciò ad interessarsi attivamente del Castello a mio padre tutto questo sembrò un po’ strano, poco più che una perdita di tempo. Cazzola era un professionista di prestigio, e per di più era imparentato con noi, con i Rossi della Cascina Giunta, ma questo interesse per il Castello mio padre faceva proprio fatica a capirlo. E ad essere sincero mi sembra che mio padre non fosse l’unico a Belforte a cui non interessasse poi molto del Castello. Era una casa degradata, quattro sassi, abitata da qualche famiglia con qualche gallina, e amen.
La mia percezione di Belforte, da ragazzo, era piuttosto discutibile. I giardini ambiziosi a cui facevo riferimento si riducevano poco più che al giardino della villetta in cui abitavamo noi. Il nostro era un bel giardino, una tavolozza di colori con le giuste rotazioni stagionali. Mia madre lo curava con scrupolo maniacale e soprattutto con un impetuoso esibizionismo. Il nostro giardino non era bello in sé, ma bello in quanto poteva essere mostrato nel suo splendore. Altre case di Belforte avevano un giardino, ma era poco più che un abbellimento di orti, non un quadro, un arazzo, un concerto come il nostro. Perfino la Massarotto ne aveva scritto su La Prealpina. E quel giorno mia madre aveva comprato dieci copie del giornale.
Le officine geniali a Belforte c’erano davvero. Luogo di valigerie, di calzaturifici, di officine meccaniche, gestite da artigiani di rara abilità. Belforte iniziava con la Valigeria Italiana e terminava con il Calzaturificio di Varese, aziende industriali. Ma in mezzo vivevano con orgoglio il Martinenghi della valigeria, il Cova del Calzaturificio Alpino, il Marzoli della valigeria, il Vanetti delle borse e borsette. E poi il Virgili delle scarpe, il Testa e il Pontiggia dei torni, il Figini delle scarpe di via Brunico e via via tanti altri, quasi tutti dissolti nel passare dei giorni e dei mutamenti dell’economia.
Le officine facevano parte del paesaggio, con le loro sirene e le fiumane di operai in bicicletta con le tute blu o le socche marroni, secondo il settore produttivo. Erano parte del paesaggio esattamente come la Casa Merini o il Castello. E come casa Merini e il Castello sono negli anni diventate pur con qualche rara eccezione un ammasso di sassi, almeno in modo figurato.
Belforte mi era sembrato sempre bellissimo, anche quando da ragazzo si era riempito di veneti, di mantovani, di quelli del Polesine, di calabresi, di siciliani. Forse un po’ più chiassoso, ma sempre bellissimo.
Ora non so di tutto questo cosa è rimasto. Ma la tenacia con cui, dopo decenni, l’architetto Cazzola continua testardamente a parlare del Castello, del suo restauro e del suo futuro, con immutata passione, mi fa pensare che Belforte è davvero un “luogo della storia”, una storia minore, una storia che non interessa a nessuno, ma un luogo che sa conservare un’anima davanti alle difficoltà del tempo.
You must be logged in to post a comment Login